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Da Forza Italia al Pd: la Lorenzin è il simbolo del trasformismo (ovvero della politica italiana)

È opinione corrente che il cambio di casacca in politica è un po’ come un rito di passaggio: ti lava dall’innocenza accademica, gettandoti nelle viscose dinamiche di potere. Questo accade a chi si approccia per la prima volta al Parlamento, ai neofiti delle poltrone. Chi invece a quest’ultime vuole rimanere ben saldo, il cambio di casacca è come un caffè alla buvette di Montecitorio: veloce, amaro e senza troppa enfasi.

Questo lo sa bene Beatrice Lorenzin, sbarcata al Pd di Zingaretti – che ringrazia e dà il benvenuto come il primo Fronte dell’Uomo Qualunque di Giannini – dopo una nascita tra le fila di Forza Italia e un tramonto intermedio nella sua creatura Civica Popolare. Il trasformismo pertanto torna tra i banchi di Palazzo Chigi, lo fa con altruismo e cuore per la patria, al suono di “Rafforzare i dem allargando il campo dei moderati è l’unico modo possibile per fermare Salvini”. Ecco cosa non si fa per la propria terra.
“Solo gli sciocchi nella vita restano sempre nello stesso posto” disse durante uno scambio di battute con Travaglio. Dopo i primi passi con Berlusconi nel 1996, infatti, la Lorenzin passa al Popolo della Libertà, nel Nuovo Centrodestra di Alfano e successivamente in Alternativa Popolare, fino a mettersi in proprio nelle elezioni del 2018 ed entrare in parlamento, per l’appunto, con Civica Popolare (sostenuta dall’Italia dei Valori, dai Centristi per l’Europa, Unione, L’Italia è Popolare e Alternativa Popolare, di cui ne fanno parte storici esponenti del centro moderato come Lorenzo Dellai). Alla faccia della coerenza.

Ogni armata Brancaleone ha il suo Thorz: il soldato in grado di mimetizzarsi con la forza predominante del momento, e che finisce, nell’ultima parte del film Brancaleone alle crociate, per convertirsi all’Islam solo per salvare la pelle. E dopo aver detto no a un Berlusconi risucchiato ora dalla Lega ora dalla scissione del Pd, dopo aver rinunciato al corteggiamento dell’Italia Viva dell’amico Renzi, Lorenzin ha scelto un porto – a suo avviso più sicuro – dove le sue idee possano prendere corpo e anima. Le stesse idee che, anche da ministra della Salute che dal 2013 a corrente alternata ha militato nei governi Letta, Renzi e Gentiloni, hanno sempre confermato la sua natura conservatrice e democristiana, tutt’altro che di sinistra: contraria all’adozione delle coppie gay, ideatrice del Fertility Day e supporter morale del family day, l’ex consigliera comunale di Roma come grado apposto sulle controspalline vanta l’arringa in difesa di Berlusconi durante il caso Ruby dove incitò le donne a “valutare con attenzione quello che Berlusconi e il suo Governo ha fatto e sta facendo a favore di tutte le donne italiane”.

Alla pari di Luigi Compagna, il recordman dai quattro cambi in nove mesi, e dell’eterno Clemente Mastella, l’ex Dc dalle sette vite politiche, la scelta della Lorenzin è forzata anche dal fatto che Civica popolare, se non per i colori sgargianti, non esiste e il Pd di Zingaretti necessita di un innesto democristiano, in grado sia di arginare l’emorragia parlamentare diretta verso la nuova “casa” renziana, sia di tirar dentro gli smarriti della destra moderata.

La prassi trasformista vuole inoltre che per un certo arco di tempo ci sia la rimozione dal vocabolario politico della parola coerenza. Non a caso, la dialettica tra Pd e 5 Stelle ha cancellato il ricordo delle piazze, degli insulti scritti e teorizzati, dei no pronunciati. Come quello dei pentastellati ai vaccini, il cui decreto contro l’avanzata dei minori non vaccinati nelle scuole porta il nome – ebbene sì! – proprio di Beatrice Lorenzin, che ne fece onere e onore durante i suoi anni da ministra. Ma bando alla nostalgia, quei no saranno sì – salvo ribaltamenti improvvisi – e gli avversari di una volta, semplici colleghi con cui dividere un governo.

La pianificazione politica sulle orme di Scipoliti, simbolo del trasformismo parlamentare in quanto eletto con il centrosinistra e votante la fiducia a Berlusconi, sintetizza il salto della Lorenzin nelle parole dello stesso camaleontico onorevole: “Prima il Paese poi i partiti”. Del resto abbiamo tutti in mente le solenni dichiarazioni dei candidati alla segreteria nazionale del Pd che escludevano in modo categorico per motivi onnicomprensivi una qualsiasi alleanza politica con i 5 Stelle. Come non possiamo fare a meno di considerare organo vitale della politica stessa il variare le maggioranze in base a convergenze d’intenti, teorizzata da Agostino Depretis, su singoli particolari e non su programmi politici di ampio respiro.

C’è da dire, comunque, in vista anche dei commenti dei seguaci sui social, che la mossa del cavallo della Lorenzin potrebbe congelare per una seconda volta la sua ascesa politica, dopo il Fertility Day che l’aveva pericolosamente avvicinata nell’immaginario al suo capo partito di allora, Angelino Alfano. Non il solo diploma di liceo classico o la propensione alla gaffe hanno intaccato la sua strada: solo la Lorenzin, dimostra anche a questa mandata, può rovinare la Lorenzin. Quella mania di primeggiare latente con la quale si è fatta accettare da tutti, il tempismo giusto nel farsi trovare alfaniana di ferro proprio quando il delfino di Berlusconi risaliva la china, la gestione del dossier Stamina, mai uno strappo e sempre sul chi vive onde evitare di diventare un bersaglio pubblico, fanno di Beatrice Lorenzin l’esempio di politica nemica di se stessa, ma così aderente ai giochi di casta da cadere sempre in piedi. Il che, vedi alla voce legislature italiane, non è poi una novità.

https://www.linkiesta.it/it/article/2019/09/20/lorenzin-pd-forza-italia-zingaretti/43628/

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