Le grandi emergenze possono costruire grandi leader e pure senza scomodare Winston Churchill, nel piccolo della nostra storia recente, sarà facile ricordare come l’altra guerra dell’Italia post-bellica – quella al terrorismo – fu il detonatore di carriere importanti per le personalità che seppero interpretare i tempi, da Francesco Cossiga a Bettino Craxi. Chi si prenderà il mantello di salvatore della Patria nei prossimi giorni, quando ci saremo adattati alle misure anti-virus e cominceremo a preoccuparci del collasso economico e sociale che già si profila? Chi sarà il leader di una possibile ricostruzione 2.0, chi saprà parlare al Paese suscitando sentimenti di speranza?
I sondaggi politici ci dicono che questo ruolo al momento resta vacante perché nessuna figura ha saputo emergere come punto di riferimento della crisi. I capi di maggioranza e opposizione restano inchiodati ai consueti indici di gradimento, nessuno di loro ha rotto il muro della sua fazione di riferimento conquistando consensi più larghi. Lo stesso premier Giuseppe Conte, figura centrale nello stato d’eccezione, resta fermo al 32 per cento, un punto in più rispetto a fine febbraio, poca cosa. Ma sono stabili pure le quotazioni di Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Nicola Zingaretti, Luigi Di Maio, con piccolissimi scostamenti rispetto al pre-crisi.
C’è un tema politico-culturale molto specifico dietro questo stallo ed è legato al curriculum delle attuali leadership italiane. Sono tutti “specialisti delle paure”, con intere carriere costruite sull’attivazione delle paure degli italiani. Paura degli immigrati, nel caso di Salvini e della Meloni, che entrambi devono la loro ascesa “all’emergenzialismo” dei barconi: un allarme che, visto oggi, mentre è a rischio non solo la nostra salute ma il nostro posto di lavoro, il nostro reddito, la nostra azienda, ci fa quasi sorridere. Ma pure dall’altra parte la paura è stata un core-business quasi esclusivo. La maggioranza giallorossa nasce dalla dichiarata paura di uno sbando autoritario determinato dalla vittoria della Lega in caso di politiche anticipate. Il principale messaggio del Partito democratico negli ultimi anni si è addensato intorno alla paura del nuovo “uomo nero”, del fascismo di ritorno, della svolta di regime, così come la mobilitazione delle Sardine nelle settimane d’oro dell’Emilia Romagna, quando bastava una convocazione online contro la deriva cilena alle porte per riempire le piazze.
Abbiamo intere filiere politiche che da anni non fanno che lucrare sul sentimento dell’insicurezza e su generici sentimenti di rabbia – contro gli stranieri, contro la casta, contro l’Europa – ed è facile capire perché in questi giorni, nonostante si sia moltiplicata l’attenzione per le scelte e le parole della politica, il quadro del consenso ai partiti resti più o meno fermo nei sondaggi: la guerra al coronavirus è un conflitto senza nemici, nessuno può giovarsene perché è impossibile usarla per bastonare i soliti capri espiatori del dibattito italiano – gli immigrati con l’IPhone, la Merkel, i fascisti e i comunisti – e tirarne fuori qualche percentuale in più.
Anche per questo è difficile immaginare un leader della speranza, che peraltro ci servirà prestissimo. Già da oggi – con il decreto del governo sugli aiuti economici per la crisi – mezza Italia scoprirà di essere priva di paracadute, perché nessuna coperta può estendersi fino a proteggere del tutto l’enorme platea delle partite Iva, del lavoro precario o del lavoro nero, voci che contabilizzano milioni di lavoratori con le loro famiglie, tutte improvvisamente senza reddito o quasi. Dire “tranquilli, ne usciremo” non sarà sufficiente. Il Paese si troverà al bivio tra nuove lacerazioni sociali e la possibilità dell’adesione a un progetto collettivo di recupero e rinascita: vedremo se qualcuno lo capirà e saprà diventare riferimento per gli italiani, moltissimi, che non vogliono gettare la spugna e rassegnarsi al destino della decrescita infelice.
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