Lontano dal cuore della crisi politica, estranee al “giorno di Conte”, pedine a riposo nello scacchiere governativo. Nel bestiario comune dell’agostano divorzio pentastellato mancano loro: le Regioni. Citate di sfuggita durante la seduta in senato e assenti nella debacle dei giorni che l’hanno preceduta, come se si volesse nascondere una profetica evidenza.
La tentazione è una e una soltanto, quella giallo-rossa. E il messaggio del premier uscente ha risuonato come un sigillo in ceralacca. Da ottobre fino a primavera c’è una sfilza di elezioni regionali di peso, in grado di modificare non solo la geografia politica dello Stivale – consegnando le chiavi del Paese, in termini federali, alla Lega -, ma anche gli schemi a livello nazionale. Umbria, Calabria, Emilia Romagna e Toscana sono chiamate alle urne, e il dialogo Pd-M5S prende le forme del Leviatano di Hobbes: simbolo del potere solo grazie al suo scheletro rappresentato come un gigante costituito da tanti singoli individui, in questo caso le regioni.
Le molte fumate nere che hanno caratterizzato il dossier dell’autonomia regionale differenziata, hanno anche posto, nel corso dei 14 mesi, su fronti opposti M5S e Lega: i nodi da sciogliere riguardano in particolare il cosiddetto costo medio e il Vas, acronimo di Valutazione ambientale strategica, su sovraintendenze, autostrade, ferrovie, porti e scuole. A metà luglio Conte disse chiaramente sì alle autonomie, ma in modo parziale, ovvero senza scuola – la linea dei cinquestelle in materia di istruzione è da sempre contraria all’applicazione del regionalismo a questo settore – e per certi versi senza sanità.
Nel frattempo, il 27 ottobre, dopo le dimissioni di Catiuscia Marini, in Umbria si vota e il Pd sembra aver già agganciato il M5s pur di scongiurare una vittoria di Salvini. Stessa storia in Calabria, dove però il M5s è arrivato primo alle Europee, gettando altra carne al fuoco e mettendo il Pd con le spalle al muro. Il contratto, in questa terra, è piuttosto complicato, in quanto il caso Mario Oliverio infastidisce i vertici del Pd romano e mette a rischio la presenza di un deputato dem alle prossime elezioni. Il governatore uscente è al centro di inchieste giudiziarie e allo stesso tempo nomi forti candidabili non sono ancora comparsi. L’intesa con i 5 stelle, quindi, è difficile ma non impossibile.
È bene ricordare che il coronamento di trent’anni di lotta del Carroccio si racchiudono nella realizzazione di vere regioni-stato, finanziariamente indipendenti, al Nord. Strizzando tuttavia, in quest’ultimo periodo, l’occhio anche alle roccaforti rosse che, per gloria e onore, possono sempre tornare utili nel carnet leghista.
A maturare l’idea che un governo sostenuto da M5S e Pd possa concretizzare i feudi regionali, c’è inoltre l’affaire Toscana ed Emilia Romagna. Il rischio di perdere due delle storiche regioni di sinistra è per il Pd un timore più forte di qualsiasi compromesso a obtorto collo.
Il sindaco di Bologna Virginio Merola ha già lanciato qualche segno di apertura, anche se il rapporto tra i due partiti è molto complesso. A fine luglio sono andate in scena le prime prove di governo a larga maggioranza, con un voto congiunto in consiglio regionale su una legge anti omofobia.
Nella patria di Dante, invece, saranno i pentastellati a dover bussare alla porta del governatore uscente. Le statistiche parlano di una distribuzione dell’elettorato a macchia di leopardo: fonte fin da subito di dinamiche e strategie, ma soprattutto, di aperture a coalizioni. Il primo a lanciare nel centrosinistra una proposta è stato proprio il governatore attuale Enrico Rossi che ha detto chiaramente che il Pd deve guardare a liste civiche regionali, per trattenere e rinforzare un bacino di elettori con ampio spettro di influenza. Non a caso la regione Toscana giocherà un ruolo fondamentale anche per Matteo Renzi: nella quale è rappresentata la sua forza politica, non solo da chi fa a lui riferimento in Regione e in Parlamento, ma dai tanti comitati nati con l’ultima Leopolda.
Insomma, l’alternativa è quella delle urne sicure che chiede Salvini, con una dovuta correlazione alle regioni. Il centrodestra stringe i ranghi tra Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, capaci di portarsi a casa nelle scorse elezioni baluardi comunisti come Pisa e Cascina. Nel 2013 il centrosinistra amministrava 10 capoluoghi toscani su 11, oggi appena 3. L’algoritmo per arrivare al governo nazionale, per giunta, non può che passare da quello locale.
Se immolarsi, però, sarà un prezzo politico affrontabile per le due fronde, c’è un rischio evidente che grava sul futuro del possibile contratto. Chi si intesterà la battaglia sulle autonomie regionali? Le scelte del 2001, con l’approvazione della riforma del Titolo V della Costituzione, e le mosse del 2018, con la Pre-Intesa siglata da Bressa a nome del governo Gentiloni, che ha aperto una breccia alle rivendicazioni delle regioni del Nord, candidano lo schieramento dei Democratici.
Forse per evitare emulazioni dell’autonomia “fai-da-te” di Zaia, anarchico nelle decisioni prese sulle assunzioni di medici e operatori sanitari negli ospedali veneti, forse per attuare una versione all’emiliana, quella più “soft”, il sentiero stretto apre a un approccio Pd-M5s in grado di garantire equità nelle concessioni e una stretta nella forbice che divide le proposte di Veneto e Lombardia da quelle del centro Italia.
Se non altro è quello che ha voluto far passare anche Conte nelle comunicazione di ieri: «Il progetto di autonomia differenziata – ha notificato l’ex premier nell’Aula del Senato – andrà doverosamente completato come stavamo facendo, senza però sacrificare i principi di solidarietà sociale e coesione nazionale».
La strada è spianata. Il possibile accordo Pd-M5S si può fare, da Nord a Sud, nel locale e sul nazionale. Il modello nasce dall’Emilia-Romagna, con una autonomia da cui resta fuori la scuola e per cui già diversi ministri 5 Stelle hanno espresso sentiti apprezzamenti.
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