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Di Maio vorrebbe deferire i dissidenti alle procure, ma è troppo tardi

Il senatore della Repubblica Gianluigi Paragone si è affidato a un sondaggio su Facebook per sapere cosa dovesse votare sul Meccanismo europeo di stabilità. E già qui verrebbe voglia di fermarsi e riscriverla da capo, per evitare il rischio che a un lettore distratto appaia una cosa normale. Il quesito, peraltro, era in perfetto stile Rousseau (non dovrebbe essere necessario, dato il contesto e dato soprattutto Paragone, specificare che s’intende la piattaforma, e non il filosofo): «Volete che oggi in Aula voti NO AL MES nel rispetto del programma dei 5 stelle?».

Non sorprendentemente, il sondaggio ha confermato la posizione del senatore, che era ovviamente contrarissimo sin dall’inizio (come il programma del movimento, a onor del vero). E lui così ha votato, pur precisando che questo non preludeva a un cambio di gruppo. Precisazione resa necessaria dal fatto che altri tre suoi colleghi, che pure hanno votato no, sembrerebbero invece intenzionati a passare alla Lega, magari dopo un acconcio periodo di decompressione nel gruppo Misto. Precisazione resa ancor più necessaria, oltre che prudente, dalle parole pronunciate da Luigi Di Maio, che aveva invitato pubblicamente i magistrati a indagare – diciamo così, preventivamente – sul «mercato delle vacche» che a suo dire Matteo Salvini avrebbe aperto in parlamento. Dimenticando che se Salvini poteva eventualmente aprire un simile mercato era perché le vacche, in Parlamento, ce le aveva portate qualcun altro, cioè il partito di Di Maio. Come del resto aveva fatto a suo tempo – al tempo cioè della prima e più famosa «compravendita di parlamentari» – il partito progenitore del partito di Di Maio, il Movimento 5 stelle uno-punto-zero, vale a dire l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, che in Parlamento aveva portato politici del calibro di Sergio De Gregorio, Antonio Razzi e Domenico Scilipoti.

Ma forse sarebbe più esatto dire che Di Pietro è stato il paziente-zero del virus populista messo a punto nei laboratori della Casaleggio Associati, ritirato dal mercato dopo una brusca crisi di rigetto dell’ex pm, quindi perfezionato e inoculato con successo nelle vene di Beppe Grillo, e infine esteso per contagio all’intero sistema politico nazionale. Come dimostra il semplice resoconto della giornata di ieri, con il senatore Paragone a chiedere come votare su Facebook e con Di Maio a suggerire che ragioni e moventi delle scelte compiute dai parlamentari in Aula siano verificate direttamente in un’aula di giustizia. Un’idea in linea con la cultura politica grillina, ma anche una spia della crisi del movimento, che Di Maio pensa evidentemente di tenere insieme con la forza pubblica.

Tanto varrebbe chiudere Parlamento e partiti, e lasciar decidere i giudici. Ma il bello è che giusto oggi, in quella stessa aula del Senato, dovrebbe prendere la parola Matteo Renzi, per sottoporre all’attenzione di tutti la questione politica sollevata dalla clamorosa inchiesta sui finanziamenti alla sua fondazione. E in effetti, dopo l’abolizione del finanziamento pubblico e la criminalizzazione di quello privato (con la legge sul traffico di influenze e altre delizie consimili), l’organizzazione della politica in Italia è diventata di fatto illegale. Con il serio rischio che, di conseguenza, a occuparsene siano solo i fuorilegge e i miliardari, o magari i fuorilegge miliardari di altri paesi (meglio noti come oligarchi).

Il pericolo che la giornata di ieri ci mette impietosamente sotto gli occhi, insomma, non è solo che la politica si avvii a diventare un’occupazione sempre più dequalificata, svolta da manodopera a basso costo, senza adeguate motivazioni e competenze, ma che persino il suo finanziamento sia già divenuto una di quelle attività che gli italiani preferiscono lasciare agli stranieri.

https://www.linkiesta.it/it/article/2019/12/12/di-maio-cinque-stelle-vacche/44731/

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