Non sono il russiagate, le Ong o la crisi di governo a turbare i sonni di Matteo Salvini in queste calde notti di fine luglio. Figuriamoci: il muro contro muro e la polarizzazione polemica lo hanno sempre favorito. No: a rendere irrequieto il leader leghista – «Non è mai stato così solo e tormentato» racconta chi gli è vicino – è il fronte interno che si è aperto sull’autonomia, la rivolta del nord, la paura di perdere la guida del Carroccio. Sembra uno scherzo dirlo visto che i sondaggi danno la Lega verso il 37% e la popolarità di Salvini in crescita costante ma la partita sull’autonomia non è uno scherzo e il suo esito rischia sul serio di costituire l’innesco d’una crisi di leadership nel Carroccio senza precedenti. Salvini sa benissimo, perché conosce il suo mondo e i suoi uomini che la lettera dei governatori del nord Luca Zaia (Veneto) e Attilio Fontana (Lombardia) rivolta a Conte – dove praticamente si definisce “una farsa” il percorso sull’autonomia che avrebbe in mente il premier – è in realtà un avvertimento rivolto tacitamente a Salvini stesso. Di più, è un ultimatum: «O imponi l’autonomia differenziata come ce la siamo descritta e raccontata fino ad oggi e come l’abbiamo promessa al nostro elettorato – questo in sostanza il succo del monito nordista a Salvini – oppure devi far saltare il tavolo e chiedere il voto finché sei in tempo e Mattarella ci permette di andare alle urne». Tertium non datur, o meglio: oltre queste due possibilità ce n’è una terza, indicibile ma inevitabile: che la rabbia del leghismo nordista, per ora canalizzata contro il bersaglio polemico dei Cinquestelle e di Palazzo Chigi, si rivolga direttamente appunto contro Salvini. Contro un capo cioè che in nome della Lega nazionale ha sacrificato le ragioni del nord per guadagnare consenso anche sotto il Po.
Può far sorridere ma ieri su alcuni social, dove si parlava di autonomia denunciando il tradimento del Veneto, si leggeva l’accusa rivolta al leader del Carroccio: «Salvini terùn». Un sentimento che ormai è tracimato oltre i confini del perimetro dei duri di Liga Veneta e dell’autonomia lombarda e che si respira in ogni raduno e festa leghista di queste settimane in Veneto, Lombardia, ma anche in Emilia Romagna.
«È come il frinire delle cicale: con la stessa ossessività e insistenza i nostri ci dicono andate al voto, andate al voto», dice un dirigente veneto della Lega pressato, come i suoi colleghi, da una base che vuole farla finita coi Cinquestelle e andare a votare in nome dell’autonomia mutilata. Ma allora perché Salvini temporeggia? Perché non asseconda la spinta del nord che gli chiede di rompere gli indugi e uscire dalla palude dell’eterno compromesso con Conte, Di Maio e l’intendenza Cinque Stelle? Perché non approfitta del casus belli che ha sul destro e non apre la crisi? Per il motivo a cui si accennava sopra: perché far saltare il tavolo del governo in nome dell’autonomia significa da un lato perdere inevitabilmente quote significative di consenso al sud, dall’altro significa avallare l’idea di una lega a baricentro settentrionale. Che detto altrimenti vuol dire sconfessare la strategia di Lega nazionale pensata voluta e dispiegata da Matteo Salvini medesimo. La strategia che ha portato la Lega a lambire il 35 per cento, a proiettare Salvini verso la premiership, a farne una forza-perno del populismo europeo.
L’idea adesso di tornare indietro – pur in nome d’un principio che Salvini ritiene sacrosanto come l’autonomia differenziata – al leader leghista non piace affatto. Pensa sia una regressione, una ridotta. Soprattutto pensa sia rischioso – ecco il punto più dirimente – per la sua leadership. Perché la roccaforte del nord è il presidio dei poteri federali leghisti, l’area di influenza dei governato ri, dei ras, dei grandi elettori. È il campo di forza dove il potere si misura sulla prassi di governo, sulle quotidianità amministrativa, dove il discorso pubblico è meno retorico e più secco rispetto a quello emanato da Roma. Questa classe dirigente locale, che a Roma è spaesata e s’aggira per Montecitorio guardinga e diffidente, ha sempre condizionato la Lega al nord e può condizionare un Salvini che dovesse spostare di nuovo lassù il suo principale campo d’azione. Salvini invece ha finora proiettato la sua figura sul piano nazionale, addirittura europeo e interpretato la sua leadership come assoluta e carismatica. Imponendo scelte come quella della rottura con Berlusconi e Forza Italia. Una via che al nord è stata percorsa con riottosa volontà tanto più che nelle regioni settentrionali la Lega governa anche grazie a salde alleanze di centrodestra con Forza Italia, alleanze che le polemiche e gli strappi consumati sul piano nazionale non hanno mai scalfito.
A rendere ancora più guardingo e nervoso Salvini sono poi i movimenti che continuano a prodursi ogni giorno all’interno della Lega sotto il manto d’un unanimismo di facciata. Dietro il malcontento del nord infatti e il pressing dei governatori ci sarebbe anche l’attivismo felpato, ma efficace, di Giancarlo Giorgetti. Dopo aver rinunciato alla propria candidatura a un ruolo nella commissione europea e aver fatto a più riprese trapelare la sua intenzione di lasciare l’incarico di sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giorgetti sembra essersi concentrato in un lavoro di retrovia vòlto alla ricostruzione del tessuto organizzativo della Lega. Riprendendo un ordito politico fatto di contatti e di incontri mirato a immaginare uno scenario ulteriore a questo governo.
Insomma è la questione settentrionale più che la questione morale a mettere in crisi la Lega di Salvini. Quel “Nord” che, rimosso dal logo leghista, quasi psicanaliticamente oggi torna con violenza a galla, spinto dall’autonomia ovvero dalla forza rivendicativa del settentrione.. Per questo Salvini è turbato e sente d’essere solo in questi giorni che lo dividono dal 25 luglio, quando si terrà il Consiglio dei ministri e un chiarimento dovrà esserci: perché forse per la prima volta è costretto a decidere, a tagliare il nodo davvero, senza poter più giocare di sponda. Se sceglie la Lega nord perderà però consenso nel meridione e dovrà dire addio al suo progetto di Lega italiana; se invece sceglie il compromesso con Conte e i Cinque Stelle, mantenendo la barra diritta sulla strategia nazionale, si ritroverà prestissimo il nord in rivolta.
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