Cazzi e mascherine (pochissime le mascherine).
Così era in marzo, quando il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte nominava un commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica Covid 2019, che per comodità chiameremo un bel commissario.
E così è due mesi dopo. Pari pari, e anzi peggio, perché il paese sta riaprendo, i ragazzi sono in giro ma non a zonzo, e però senza mascherine giusto a zonzo (e soli, o al massimo con un congiunto) si può andare. Il bel commissario, dottor Domenico Arcuri dalle Calabrie, a questo doveva servire, per questo era stato nominato: dotare gli italiani dei “dispositivi di protezione personale”, ovverosia mascherine, chirurgiche o filtranti, di comunità o lavabili. Un onere certamente complesso, nelle settimane in cui le mascherine sono un bene di prima necessità mondiale, e la congiuntura planetaria non favorisce gli scambi, visto che imperversa una pandemia. Complesso, ma non impossibile.
E invece.
L’uomo assunto al posto di Bertolaso, che avrebbe fatto troppo dirigismo destrorso e che soprattutto ha certi trascorsi chiacchierati, non ha risolto niente di niente e, dopo giorni di assedio – Commissario, qui Federfarma, dove sono le mascherine che aveva promesso? Come mai nelle farmacie sono irreperibili? S’è accorto che aver calmierato i prezzi ha fatto sparire anche le poche che c’erano? – ha detto che lui non c’entra: «La colpa è di distributori e farmacisti».
Gli italiani, che pure sono scaricabarili olimpionici, hanno reagito male e allora lui, in una torrenziale conferenza stampa di quelle della Protezione Civile, una di quelle che certe volte in queste settimane hanno oscillato tra “Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno” e un comizio di Emilio Colombo buonanima nelle Lucanie a lui contemporanee, ha proceduto a encomiare il lavoro suo e di sé stesso medesimo (una coppia formidabile, alla quale s’è riferito, per 50 minuti, o con la prima persona plurale o con la terza singolare, come fanno i mitomani e le associazioni di categoria, due caposaldi culturali di questo bizzarro paese ai cui vertici siede una larga maggioranza di maschi meridionali).
Il bel commissario, pur non essendo un politico, ha subito appreso l’incedere retorico degli inestinguibili centristi meridionali, quelli il più possibile democratici e cristiani, e ha detto che grazie a loro, cioè a lui, il paese godrà di incontestabili dati di fatto.
Primo, nessuno speculerà sulle mascherine, che costeranno 0,50 centesimi più 0,11 centesimi di Iva «finché ci sarà l’Iva» (oh, che soave ritornello, lo sentiamo dai tempi di obladì obladà); che le manifestazioni di «vogliamo dire diciamolo: doppia morale» sono finite perché presto tutti si renderanno conto che calmierare il prezzo delle mascherine e una serie di altre misure non meglio specificate ma adottate da loro, cioè da lui, faranno sì che il paese smetta di essere dipendente dall’esportazione di dispositivi di protezione individuale – in buona sostanza, il bel Commissario s’è detto fautore della prima grande autarchia dell’Italia terzorepubblicana, quella della produzione di dispositivi di protezione personale.
Come si fa(ceva) nei comizi meridionali, ha poi simulato un’autocritica, che altro non era che un cucchiaio, e ha detto: «Qualcuno obietterà: il commissario predica, ma i fatti quali sono?» e puntando sul fatto che gli italiani se ne stessero in venerazione, ad ascoltarlo senza sentirlo, come l’aula di tribunale ascolta l’avvocato di Mariannina Terranova in Divorzio all’italiana, nemmeno a quel punto ha detto un fatto.
Quando volano altissimo, stanno scappando. Sempre. E infatti a parte questo giganteggiare, profilare scenari di autosufficienza nazionale e irrobustimento del sistema sanitario nazionale e di quello etico morale dei cittadini, di concreto, di spendibile, ha detto soltanto che le mascherine lavabili sono quelle che si possono lavare più di una volta. E questo sì che segnala profonda conoscenza del paese che è chiamato a dotare di dispositivi anti contagio, un paese di sposati con madri che fanno loro le lavatrici finché morte non li separi.
Povero Arcuri, l’asintoto che la sua carriera era fino a tre mesi fa s’è trasformato in uno zero assoluto. E chi lo avrebbe mai detto. Sembra ieri che tutti si complimentavano con Conte per l’equilibrata scelta, per aver preferito a Bertolaso un «affidabile manager di Stato», uno che per 13 anni ha fatto il manager per Invitalia, mestiere simile a quello che fa Richard Gere in Pretty Woman (e infatti come Richard Gere ha i capelli brizzolati di quel grigio tailleur che annienta l’età e ti sovvien l’eterno), con quel talento incolore che gli ha permesso di collaborare con tutti, da D’Alema a Conte passando per Renzi.
Tredici anni di onorata ma silenziosa carriera, nei quali non ha mai tradito il suo affetto più caro, il suo congiunto stabile, e cioè lo statalismo, anche se morbido e cerchiobottista, come è si conviene a un centrista del sud, e infatti due anni fa diceva al Foglio: «Come diceva Federico Caffè, poiché il mercato è una creazione umana, l’intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo o vessatorio». Nei giorni scorsi, in stupendo accordo, ha dato dei «liberisti da cocktail sul divano» (Fedez, per piacere, ci intitoli un disco) agli incauti turbocapitalisti che osavano manifestare perplessità sull’efficacia del prezzo politico per le mascherine.
Stretto tra l’antiliberismo di matrice reggina e l’orgoglio patrio di matrice statalista, con un rinforzo di recente acquisizione, ché come si fa a non inorgoglirsi se si è chiamati dal premier del proprio paese per ricoprire un ruolo di solutore, il bel commissario che parla di sé come fosse uno, nessuno, e centomila, è bene che ripassi le geografia politica degli ultimi decenni, ché se continua così altro che autarchia, saremo costretti a comprare dai russi quei deliziosi fazzoletti che le donne delle loro campagne usano ancora portare in testa, e riconvertirli in mascherine.
Auguriamoci almeno che per allora Arcuri abbia imparato che l’Unione Sovietica, dalla quale a marzo scorso diceva che sarebbero arrivati 180 medici e un imprecisato numero di presidi e aiuti, grazie all’indefesso lavoro di Conte, il bel presidente, non esiste più. Sì signori, aveva detto proprio Unione Sovietica. Con la stessa convinzione da preside di istituto superiore con la quale ci ha detto che siamo un paese zeppo di individui con una doppia morale.
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