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E se, sulla questione migranti, il problema dell’Italia fossimo proprio noi elettori progressisti?

Qualunque cosa si pensi nel merito della decisione di rinnovare gli accordi con la Libia, chiedendo contestualmente la convocazione di una commissione congiunta che ne modifichi i termini, non possono non colpire la cautela, la freddezza, l’estremo pragmatismo del dibattito. Tutto un attento soppesare esigenze umanitarie da un lato e ricadute politiche dall’altro, questioni di principio da tenere in debito conto e conseguenze pratiche tuttavia ineludibili, valori non negoziabili e compromessi pur necessari, responsabilità e fattibilità.

Uno stile di pensiero e di discussione che contrasta in modo evidente con quello con cui, da almeno tre decenni, trattiamo ogni altra questione. Dalla tassa sulla plastica alla riduzione dei seggi parlamentari, dalle regole del finanziamento della politica alla durata della prescrizione, non c’è in pratica una sola norma della nostra produzione legislativa che non sia assurta nel dibattito a questione morale, e trattata come tale, con toni e argomenti degni di una crociata. L’etica ha preso il posto della politica ed è divenuta il solo metro di giudizio e valutazione delle scelte pubbliche (meglio sarebbe dire, però: una certa etica, che ha poco a che fare con gli imperativi categorici kantiani e molto con il fanatismo di alcuni categorici impostori). Tutto, insomma, è stato ridotto a questione morale, in una guerra tanto violenta quanto elementare tra bene e male, in un parossismo di moralismo e manicheismo che non ha risparmiato niente e nessuno, nemmeno le merendine. Unica eccezione, la scelta di rispedire nei lager in cui vengono torturati, stuprati e uccisi coloro che scappano dalla guerra o dalla fame.

Qui no. Qui – attenzione – ci vuole realismo, razionalità, responsabilità. Anche dopo aver visto, letto e sentito tutto, anche dopo aver saputo che molte di quelle persone vengono seviziate mentre sono al telefono con i familiari affinché questi si decidano a mandare altri soldi, anche dopo averli visti con le catene al collo, anche dopo aver visto le torture e i segni delle torture: il dibattito pubblico sulla questione libica non esce mai dai binari di un’attenta contabilità dei pro e contro, del politicamente accettabile e del pragmaticamente fattibile.

Per essere onesti, non si tratta di una novità, perché è così – almeno – dai tempi di quel governo Gentiloni che gli accordi con la Libia li ha voluti, pensati e sottoscritti. Senza che nessuno ci trovasse niente da ridire, non solo tra politici e giornalisti (con le giuste e meritorie ma anche assai isolate eccezioni, tra gli uni e tra gli altri), dico proprio tra gli elettori. Come vogliamo chiamare questo singolare capovolgimento del sentimento morale, questa atrofizzazione della capacità di distinguere e insieme questo disorientamento dell’emotività, per cui ci s’indigna fino all’isteria per il costo del barbiere della Camera dei deputati ma non si fa una piega di fronte a esseri umani ammazzati a bastonate?

Sul piano personale, può darsi che la psicologia, o magari la filosofia morale, conoscano già la risposta a tali interrogativi. Certo è che sul piano politico è difficile non vedere in tutto ciò un nesso con quello che sta accadendo nel mondo. E tuttavia, al netto di tutte le nostre giuste analisi politiche e geopolitiche sul montare del populismo, il ruolo dei social media, l’onda lunga della Brexit e le conseguenze del trumpismo, il problema di fondo non sarà semplicemente che noi – proprio noi elettori di sinistra – siamo diventati dei grandissimi stronzi?

https://www.linkiesta.it/it/article/2019/11/04/sbarchi-migranti-2019-salvini-pd-sinistra/44207/

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