Luigi Di Maio e i Cinque stelle sono una minaccia per l’Italia, un pericolo grave. Non contenti di aver fermato l’Ilva, salutando il dieci per cento del prodotto interno lordo del Sud, di aver ostacolato il collegamento ad alta velocità con l’Europa nord occidentale, di aver smantellato lo Sviluppo economico inseguendo la decrescita felice, di aver promosso la nullafacenza di Stato a colpi di navigator e associati, di aver provato a consegnare le infrastrutture strategiche ai cinesi in cambio di una spremuta di arance rosse di Sicilia, di aver pensato di trasformare l’Eni in una start up a idrogeno, di aver picconato il sistema bancario e di altre decine di fesserie da analfabeti della crescita economica, ora i grillini si stanno concentrando su una delle poche cose, oltre a Milano dove però vengono rimbalzati, che funzionano molto bene: stanno provando a indebolire il commercio estero, un giocattolo che fa da solo un terzo del Prodotto interno lordo italiano.
Secondo l’Export update presentato nei giorni scorsi da Sace-Simest, l’export italiano tiene in piedi il paese in tempi di crisi e di assenza di mercato interno con 480 miliardi di euro e più 3,2 per cento rispetto all’anno precedente. In termini di occupazione, diciamo che vale un po’ di più dei navigator e delle app del Mississippi del chiarissimo professor Mimmo Parisi. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, però, non dà le deleghe per il commercio estero a chi come Ivan Scalfarotto è stato nominato sottosegretario e mandato alla Farnesina esattamente per occuparsi di questo, sulla scia di quanto ha fatto benissimo durante i governi Renzi e Gentiloni. Di Maio non dà le deleghe, né queste né altre, né a Scalfarotto né agli altri suoi vice, perché non vuole concedere un palcoscenico di grande visibilità a un esponente del partito di Matteo Renzi. Non è un rumor, non è un pettegolezzo, è la miserabile realtà del populismo al governo: ai diplomatici, i grillini non nascondono che il motivo è questo, una rappresaglia politica che mette a rischio uno dei settori strategici del sistema Italia.
I Cinque stelle sono questi: teneramente consapevoli della loro inadeguatezza culturale e politica quando si fanno spiegare dal personale della Farnesina che cosa fare, che cosa dire e come comportarsi, non sapendo assolutamente nulla di nulla su qualsiasi argomento anche a piacere, stranamente mansueti negli incontri con le delegazioni straniere sia americane sia cinesi, ma anche con i russi e i bielorussi, e infine peracottari quando annusano l’arrivo di una telecamera o di un taccuino verso i quali si attivano voraci in modalità Dibba. I grillini sanno benissimo che il Venezuela di Maduro è una disgrazia, che Evo Morales è indifendibile, che le sanzioni al Cremlino sono giuste e mille altre cose, dalla Cina alla Libia, ma quando si trovano in favore di telecamera seguono la partitura decisa da Casaleggio via Rousseau e pensano a come differenziarsi da Salvini, o da Renzi, non a fare la cosa considerata giusta per il paese.
Sul commercio estero quindi non vogliono regalare a Scalfarotto una storia positiva e, allora, provano a cambiare la narrazione, scatenando all’uopo il sottosegretario Manlio Di Stefano, il quale è una specie di Attila delle relazioni internazionali: primo putiniano dei Cinque stelle e compare di viaggi moscoviti di Alessandro Di Battista, cantore dell’invasione russa in Crimea, aedo dei profondi legami di solidarietà e amicizia con il popolo bielorusso, fautore dell’uscita dell’Italia dalla Nato, garante della ministra dei diritti umani del Pakistan, sostenitore della «sindrome da pene piccolo di Macron» (tutto vero), impegnato nelle settimane scorse in esilaranti incontri per promuovere lo studio culturale sull’Italia a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan, insomma un tipo alla Borat, ma di Palermo.
Di Stefano è un facilitatore della fine del commercio estero, scelto appositamente da Di Maio per mettere i bastoni alle ruote a Scalfarotto e di conseguenza all’incolpevole commercio estero italiano. L’altro giorno, per esempio, si è schierato contro la ratifica del Trattato Ceta di libero scambio tra Europa e Canada, un accordo che dal settembre 2017, da quando è entrato provvisoriamente in vigore in attesa della ratifica, ha consentito all’Italia di esportare in Canada 438 milioni di euro in più. Per questi motivi, Di Maio sta pensando proprio a lui per la delega al Commercio estero, magari condivisa con Scalfarotto. Il Partito democratico di Zingaretti, l’Italia Viva di Renzi, la Confindustria moribonda di Boccia non dovrebbero consentirglielo.
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