Dodici anni fa organizzava manifestazioni nelle piazze italiane per gridare vaffanculo ai politici. Ora che il suo Movimento governa da un anno, Beppe Grillo ha scoperto che la politica non è sempre bianco o nero. Il grillismo è morto e il comico che voleva cambiare la casta dei politici bugiardi, corrotti e poltronari si trova dei discepoli incoerenti e pronti a rinunciare a tutti i valori che hanno professato pur di non perdere il loro ministero. La pietra tombale dell’utopia grillina è stato il voto di ieri in Parlamento sul Tav.
La mozione del M5S per fermare la costruzione della linea ad alta velocità Torino-Lione è stata una «presa per i fondelli» secondo Alberto Perino, uno dei leader storici del movimento No Tav. A lui ha risposto proprio Grillo, offeso per essere stato chiamato un traditore. «Non avere la forza numerica per bloccare l’inutile piramide non significa essersi schierati dalla parte di chi la sostiene» ha scritto il garante del Movimento su Facebook. Tutto giusto, tutto vero. Ma per mesi Luigi Di Maio ha ripetuto «Finché il M5S è al governo il Tav non si farà» nonostante questo e altri giornali avessero chiarito fin da subito che solo un voto di Camera e Senato avrebbe potuto fermare i lavori.
Il Tav è frutto di un trattato internazionale con la Francia e solo il Parlamento può modificarlo, non il Governo. Bastava leggere l’articolo 80 della Costituzione. E tutti sapevano che non c’era alcuna maggioranza per bocciare l’opera perché l’unico partito contro il Tav era il Movimento Cinque Stelle. Se avessero voluto tentare il tutto per tutto, avrebbero dovuto far cadere il Governo mesi fa, chiedendo agli italiani il voto per avere una maggioranza in Parlamento in grado di cambiare il trattato. Ma non è successo. E per quasi un anno abbiamo parlato del nulla assoluto.
«I suoi sforzi per insultare me e il movimento, con tarda pacatezza, esprimono la dinamicità di un fermacarte, incapace di farsi delle nuove domande, mentre l’avversario ha già cambiato pelle moltissime volte». scrive il comico abituato a tagliare i problemi complessi con l’accetta e a dividere i politici in buoni o cattivi, come in un film western. Ora si scopre un po’ Giulio Andreotti. La sua risposta a Perino richiama «la situazione è un po’ più complessa» che “Il Divo” pronunciava nell’omonimo film di Paolo Sorrentino.
Sì, la situazione è sempre stata un po’ più complessa delle semplificazioni pentastellate. E ora anche l’ultimo totem del grillismo è caduto. No ai vaccini, fuori dall’Euro e dall’Unione europea; mai in televisione, mai alle alleanze coi partiti, mai condoni e tutto in streaming; no al Tap, no agli F35 e chiusura dell’Ilva; la regola del doppio mandato, gli stipendi restituiti e rendicontati; dimissioni se indagati, sempre sì alla richiesta di autorizzazione a procedere per un parlamentare. E ora il Tav. Tutto sconfessato, tutto rinnegato. Altri partiti ci hanno messo generazioni a tradire i loro ideali di partenza. Al Movimento è bastato un anno di governo.
La colpa sarà pure del capo politico Luigi Di Maio, ma cosa ci sta a fare il garante se tutti, proprio tutti i principi del Movimento vengono rinnegati? Nel 2016 Grillo annunciò di essere «po’ stanchino» come Forrest Gump. Ma più che un passo di lato dalla guida del M5S il suo è stato un lavarsene le mani alla Ponzio Pilato. Mai una parola di condanna, mai una decisione drastica per fermare il declino del suo movimento. Al massimo un tweet sibillino o un post incomprensibile su Facebook.
«Se voti Sì vuol dire no. Siamo tra il comma 22 e la sindrome di Procuste» scrisse per commentare l’assurdo quesito posto agli iscritti del Blog delle Stelle per votare contro l’autorizzazione a procedere per Salvini nel caso Diciotti. Oppure «Il mandato ora in corso è il primo di un lungo viaggio…ma di andarmene a casa non ho proprio il coraggio…» la frase della canzone Se mi lasci non vale di Julio Iglesias per ironizzare l’idea del mandato zero proposto da Di Maio.
La schizofrenia politica del Movimento è la stessa del suo fondatore. «No alle Olimpiadi del mattone scrisse Grillo nel settembre del 2016 per bocciare la candidatura di Roma 2020 ai Giochi. Poi nel marzo 2018 disse sì all’idea delle Olimpiadi sostenibili a Torino durante un’assemblea degli attivisti piemontesi. Nel 1998 in un suo monologo teatrale a Milano criticò i vaccini obbligatori per i bambini. Ma a gennaio di quest’anno ha firmato un patto trasversale, sottoscritto anche da Roberto Burioni e Matteo Renzi, a favore delle vaccinazioni. E un mese dopo sul palco di un teatro ha risposto: «Non sono più il capo politico, non venite a menarmela» agli attivisti no-vax che lo contestavano.
Nel 2013 durante la campagna elettorale promise che i parlamentari del Movimento Cinque Stelle avrebbero preso solo 2500 euro al mese e avrebbero rendicontato ogni spesa della diaria di 3500 euro. Fino all’ultimo scontrino. Bastarono poche settimane e il leader del M5S capì che era impossibile giustificare ogni singola voce della diaria. «L’importante è essere presenti in Parlamento, fare il proprio lavoro onestamente e in modo trasparente. Io non ho mai eccepito sugli stipendi, ma solo sui vitalizi». Intransigenti, ma non troppo.
Solo uno stupido non cambia mai idea, ma in politica la credibilità è tutto. Ancora di più per un Movimento che ha fatto della coerenza il proprio cavallo di battaglia. Se per anni nelle piazze, in tv, nei video su Facebook, nei funerali ci si professa onesti, integri e puri per prendere il voto dei tanti delusi dalla politica, poi non si può fare marcia indietro. O almeno non così tante volte. Il Movimento Cinque Stelle non è stato votato perché aveva la classe dirigente più preparata, istruita ed esperta, ma perché rappresentava un’alternativa, un’idea di Paese diversa da quello che c’era stata fino a quel momento.
Un esperimento, una scommessa, un azzardo. «Meglio un politico inesperto e onesto rispetto a uno esperto e disonesto» era lo scioglilingua preferito degli elettori grillini. Solo che «a fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura» diceva il socialista Pietro Nenni. E non aveva visto il Movimento Cinque Stelle. Ora che il grillismo è morto c’è solo una soluzione per non perdere la faccia: dimettersi. Tutti, subito. Per ripartire da zero e salvare il salvabile. Ma questo vorrebbe dire per quasi tutti i dirigenti pentastellati andare a casa e terminare la loro esperienza politica. A poco a poco si è creata una casta degli anti casta che sta facendo di tutto pur di non far cadere il Governo. E mentre il fondatore del Movimento si perde in sofismi giuridici o tweet sibillini, la sua creatura gli è sfuggita di mano. La sensazione per molti elettori grillini delusi è che questi dieci anni del M5S siano stati un lungo monologo comico. Ma nessuno sta ridendo.
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