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Elogio di Giuseppe Conte, lo Statista che non sapeva di esserlo

 

Siamo sinceri, facciamo lo sforzo di guardare in noi stessi e ammettiamolo: abbiamo apprezzato, provato simpatia, ammirato, forse persino amato Giuseppe Conte, lo sconosciuto avvocato prestato alla politica, il premier che era vice dei suoi vice, il “gaga” fin troppo impeccabile e leccato come sono solo i commessi di boutique di lusso, il premier finalmente premier per un giorno che ha messo in riga il torvo Matteo Salvini, l’ex alleato “pericoloso per le istituzioni, sprezzante delle regole, incline all’autoritarismo”, in poche parole un po’ fascistoide. Lui, l’uomo senza qualità, ha sfoderato quella che in fondo più piace agli italiani : il timido che mette in riga il prepotente, il Gattuso che batte Ronaldo, il Fantozzi che spennacchia il potente di turno,

L’antieroe che diventa il Badoglio nelle stagioni buie della politica, che sono numerose, soprattutto ogni volta che la gente sente puzza di prepotenza, di maniere spicce, di aggiramento delle faticose complicate regole della democrazia. E spesso è la stessa gente che fino a qualche ora prima applaudiva il nuovo capitano, l’uomo forte, il leader della provvidenza mandato a farla finita con compromessi al ribasso e pastoie burocratiche che urla il suo “ci penso io!”, in questo caso un lombardo “ghe pensi mi!”, tracimato dal Papeete beach.

Conte ci è insomma piaciuto, al di là dell’appartenenza politica, ammesso che ne abbia mai avuta davvero una e che non sia già pronto ad averne un’altra, nel caso possa essere lui il premier (questa volta per davvero) che guida una coalizione di segno opposto, la “giallorossa”, con buona pace dei laziali e di quanti sperano inutilmente che la nuova santa alleanza faccia fuori un tragico simbolo “giallorosso”, Virginia Raggi.

Conte ci è piaciuto perchè conferma la regola che la funzione sviluppi l’organo, che trovarsi al posto giusto al momento giusto sia decisamente più importante di qualsiasi altra dote politica o caratteriale o professionale o culturale. Si può essere un cavallo e finire al Senato se l’imperatore lo vuole, dirigere una rete televisiva se le circostanze e gli accordi portano a una scelta obbligata, guidare un esercito se sono morti gli altri generali, e fare il primo ministro se la più pazza e improbabile delle coalizioni non trova di meglio che inventarsi un segnaposto da tirare giorno e notte per la giacca. E poi ci sono esempi più nobili. Alzi la mano chi avrebbe scommesso sulla magnifica carriera di Angela Merkel, la grigia funzionaria cresciuta nell’Est comunista, o sulla fulminante conquista dell’Eliseo di François Hollande, il “budino” secondo la stampa satirica francese.

Ma è proprio qui da noi, quando potrebbe avverarsi la massima di Flaiano (“oggi anche un cretino si specializza”), che il nostro eroe, il difensore delle istituzioni, della democrazia parlamentare, della legalità, sfodera grinta, capacità insospettate, incredibile fiuto e astuzia verbale nel cogliere il momento giusto e randellare, sempre con eleganza, impugnando un fioretto e tenendo i toni bassi, colui che fino a ieri sembrava incombente e invincibile. Giustamente ha citato Manzoni, si è auto calato nei panni di don Abbondio, poi è uscito dal vaso di coccio e s’è dato quel coraggio che nessuno credeva che avesse.

“Un uomo non arriva mai così lontano quando non sa dove andare”, scriveva Robert Musil, ma il nostro “uomo senza qualità” ha trovato la sua strada in corso d’opera, proprio nel momento in cui sembrava destinato a rientrare nei ranghi dello studio professionale e dell’insegnamento. Forse sarà ancora primo ministro, essendo indispensabile (!) punto di equilibrio per soddisfare i suoi nemmeno tanto ex compagni di viaggio e al tempo stesso indispensabile (e dai!) garanzia di serietà per il partito democratico che non potrà pretendere la leadership del governo.

Lui ci terrà a fare sapere di non essere un uomo per tutte le stagioni, ma a volte sono tutte le stagioni che hanno bisogno di uomini come lui.

 

 

 

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