«Credo sia venuto il momento di discutere il tabù della monetizzazione del debito». Se la scelta delle parole, così come quella dei momenti, e delle congiunture politiche, ha un suo peso, il discorso che Giovanni Tria ha tenuto ieri al Forum sulla sostenibilità organizzato dalla Luiss a Villa Blanc rischia di essere uno dei più clamorosi autogol di questo governo. Perché dietro la formula un po’ oscura e tecnica che evocato dal ministro dell’economia italiano, in realtà, c’è un auspicio ben preciso: che la Banca Centrale Europea cancelli parte del debito italiano attraverso il suo acquisto e l’emissione di nuova moneta in egual misura. Una specie di Quantitative Easing definitivo che alleggerirebbe con un colpo di spugna il gigantesco fardello che grava sulle spalle dell’Italia, consentendole di fare politiche espansive per rilanciare la crescita, e in particolare gli investimenti pubblici.
Questo il senso delle parole di Tria, in estrema sintesi. Il problema è che al di là della fascinazione che può esercitare quest’idea sugli apprendisti stregoni di casa nostra, sempre alla ricerca di formule magiche che non contemplino il concetto di sacrificio e quello di responsabilità, la proposta del ministro dell’economia è irrealizzabile. E anche solo enunciarla rischia di evocare, per reazione, scenari europei diametralmente opposti.
Andiamo con ordine, però. Primo: la proposta Tria di monetizzazione del debito pubblico richiede che la Bce cambi il suo statuto, e per farlo serve l’unanimità degli stati membri. Probabilmente, se si votasse oggi, il No vincerebbe diciotto a uno, forse diciassette a due, se la Grecia si schierasse con noi. Solo noi e la Grecia, del resto, abbiamo interesse a tagliare il nostro gigantesco debito. Banalmente, perché solo per noi e la Grecia il rapporto debito/Pil rappresenta un problema. Fine della discussione, insomma.
Secondo errore: siamo in piena campagna per l’elezione del nuovo presidente della Bce, che con ogni probabilità, dopo l’Italia Mario Draghi, sarà espressione della volontà dei tedeschi e dei loro alleati nord europei. Dopo le parole di Tria, è più che probabile che sarà scelto il più falco dei falchi, anche solo per evitare che agli “amici” italiani vengano ancora strane idee. Volevamo la monetizzazione del debito? Ecco, rischia di arrivare un governatore – ad esempio il finlandese Olli Rehn – che potrebbe decidere di far finire il Quantitative Easing più velocemente del previsto. Tu chiamali se vuoi, capolavori.
Il più grave di tutti, però, è il terzo errore: perché il segnale che Tria ha dato ieri agli operatori finanziari è terrificante: in sostanza ha detto che l’Italia non è in grado autonomamente di ridurre la propria esposizione debitoria, e che avrebbe bisogno di una remissione. Per un Paese che per le agenzie di rating è due gradini sopra la spazzatura, è un segnale devastante di impotenza politica, la prova regina di un Paese – la terza economia del continente – che si auto percepisce come una specie di stato centro africano, costretto a chiedere la grazia alle potenze creditrici. Con la manovra d’autunno alle porte, 35-40 miliardi da trovare per rimettere in pari il bilancio dello Stato, si prevedono tempeste.
Il problema è che Tria non è uno stupido. Che sa benissimo, in cuor suo, che quelle parole sono un grido d’aiuto alle istituzioni continentali, mentre Salvini ancora blatera di flat tax al 15% e di rapporto debito/Pil al 3,5% «per creare lavoro». Il problema, semmai, è che dall’altra parte non c’è nessuno che ci ascolta. E sono sempre di più quelli che ci vorrebbero in quarantena, o ancora peggio fuori dall’Euro. Aspettando Draghi al Quirinale, se mai arriverà.
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