La più grande truffa del governo del cambiamento deve ancora arrivare. E se hanno un peso le parole di Giancarlo Giorgetti, che ieri ha evocato per la prima volta lo spauracchio della crisi, comincerà a materializzarsi a partire dal 27 maggio prossimo, appena si delineeranno i risultati delle elezioni europee. La più grande truffa è la rottura artificialmente indotta tra Lega e Cinque Stelle per evitare di mettere mano alla legge di bilancio lacrime e sangue del prossimo anno. Quella con cui bisognerà pagare il prezzo (e gli eventuali fallimenti) di Quota 100 e del Reddito di Cittadinanza.
I conti della serva li conoscete: per l’anno prossimo, se non le sterilizziamo coprendole con altre entrate, ci tocca aumentare l’Iva per 23 miliardi. E a questo si aggiunge il costo della mancata crescita, che dovrebbe aggirarsi attorno agli 0,8 punti di Pil (era prevista all’1%, se andrà bene atterreremo allo 0,2%). Totale spannometrico: altri 15 miliardi circa, che porterebbero il conto a 38 miliardi di euro più euro meno. Per dire, il Salva Italia di Monti – annus domini 2011, quello della legge Fornero e della reintroduzione dell’Imu – ne costava 30.
Altro debito? Siamo già molto sopra le previsioni e con lo spread a 281: meglio di no. Rimangono tagli e tasse, quell’austerità che Salvini e Di Maio vedono come fumo negli occhi e che avevano promesso di mettere definitivamente in soffitta a furia di ricatti e pugni sul tavolo. Peccato che nel frattempo Di Maio sia diventato un agnellino che elogia la Merkel, che attesta l’europeismo del Movimento, che si presenta alle europee con un programma uguale a quello del Pd e che difende il sacro vincolo del 3% dagli attacchi di Salvini.
Il Capitano, nel frattempo, parla di tutto, dagli immancabili migranti alla cannabis, fino al futuro di Gennaro Gattuso, ma di economia e bilancio pubblico non proferisce parola, se non per promettere l’esatto opposto: «Fino a che la disoccupazione non sarà dimezzata in Italia, fino a che non arriveremo al 5%, spenderemo tutto quello che dovremo spendere», ha detto ieri all’inaugurazione di una nuova sede della Cdp a Verona, aprendo a ogni possibile sforamento dei patti, come se il debito pubblico italiano già non fosse un gradino sopra la spazzatura, guardato a vista da tutte le agenzie di rating, con fucili spianati e outlook negativi.
La confusione è grande sotto il cielo, direbbe Mao, ma la situazione è tutto fuorché eccellente. Mai la Lega accetterebbe di fare una legge di bilancio di tasse e tagli. Mai i Cinque Stelle – che vogliono stare in maggioranza in Europa – accetterebbero di andare allo scontro definitivo con la Commissione Europea e con i mercati. Ecco perché entrambi stanno cercando in tutti i modi di arrivare allo scontro finale e di rimettere il cerino nelle mani di Sergio Mattarella. La Lega per andare a votare subito e prendersi i parlamentari che i sondaggi le accreditano. I Cinque Stelle, che invece dimezzerebbero i loro consensi, sperando che estragga dal cilindro qualcosa – un governo tecnico, o del presidente – che tenga in vita la legislatura e si prenda la responsabilità di salvare l’Italia.
Tutti gli altri, a partire dal Pd, vorrebbero invece che l’alleanza giallo-verde durasse ancora qualche mese. Abbastanza per evitare un ritorno alle urne nell’imminenza della legge di bilancio. E per far pagare a Lega e Cinque Stelle il costo delle loro promesse elettorali. Per questo Zingaretti – che pure ha dato a Mattarella la disponibilità informale a fare da stampella, nel caso il momento lo richiedesse e si trovasse una maggioranza parlamentare – non vuole sentire parlare di alleanza Pd-Cinque Stelle e di governi del presidente. Perché non vuole essere lui a pagare nelle urne i disastri altrui, mentre i veri colpevoli si rifanno una verginità all’opposizione, come accadde a Bersani con Monti.
Il destino, in ogni caso, è nelle mani di Di Maio e Salvini. Un incidente per chiudere è facile da trovare, se quella è la volontà. Sperare che gli italiani siano così stupidi da non capire il giochino, o che basti qualche post sui social a convincerli del contrario, forse, è davvero troppo. Forse.
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