«Sono per l’uscita dall’euro. Se Draghi dice che uscire dall’euro ci costerebbe moltissimo, allora gli chiedo quanto ci è costato avere l’euro; e se prima diceva che non si poteva fare e ora fa il conto vuol dire che forse si può fare». Alberto Bagnai? Claudio Borghi? No, sono parole del presidente del Veneto Luca Zaia, intervistato su La7 da Giovanni Minoli.
«In assenza di modifiche ai trattati, la misura estrema sarà un negoziato bilaterale tra Italia e Ue ricorrendo alla clausola di rescissione». Antonio Maria Rinaldi? Francesca Donato? No, le parole sono di Giancarlo Giorgetti, vicesegretario federale della Lega, scritte nella mozione a sua firma del Congresso federale del partito, a Parma, dove ha presentato un testo in cui indicava la strada per uscire dall’Unione europea.
Era il 2017, la Lega di Matteo Salvini non era ancora tornata al governo ma riempiva le piazze con lo slogan “Basta Euro!”, e la linea politica era condivisa da tutti. Anche da chi, oggi, è considerato moderato, come Zaia e Giorgetti che sono, prima di tutto, uomini di partito. E il partito, oggi, è di Matteo Salvini: «Bisogna chiedersi prima di tutto se esiste una Lega moderata. La Lega può provare a mascherarsi, come nel primo governo Conte, ma poi la vera natura viene fuori su tematiche precise: in quel caso sicurezza e immigrazione», dice David Allegranti, giornalista e autore del libro “Come si diventa leghisti. Viaggio in un paese che si credeva rosso e si è svegliato verde”.
In questo momento Zaia è probabilmente il massimo esponente della “Lega di governo”. Classe 1968, ha iniziato nella Liga Veneta negli anni Novanta e non è mai uscito dalle logiche di partito del Carroccio.
In Veneto, Zaia ha un consenso enorme in tutte le sensibilità dell’elettorato: l’ultimo sondaggio Demos parla di oltre il 90 per cento. La regione è il suo feudo, la governa da dieci anni – è stato eletto nel 2010 e confermato nel 2015 con maggioranze vicine al 60 per cento – ed è protagonista assoluto della scena politica e mediatica (organizza più o meno una conferenza stampa al giorno e batte senza sosta le tv nazionale e locali).
I risultati sono eccellenti soprattutto in economia: il Veneto è la regione con il più basso tasso di disoccupazione – poco superiore al 6 per cento – e contribuisce al 9 per cento del Pil nazionale: 162,5 miliardi su 1.725 miliardi (dati Istat 2017).
Nella sua amministrazione il tratto della Lega è sempre presente: Zaia è un convinto autonomista, a momenti anche secessionista. Nel 2012 diceva: «Chi tra di noi non vorrebbe un Veneto indipendente e sovrano?», e ha ribadito il concetto ancora pochi giorni fa, durante un’intervista all’Adnkronos: «È evidente che a Roma vivono l’autonomia come una sottrazione di potere, mentre è un’assunzione di responsabilità. L’Italia esce dal Medioevo se fa una scelta federalista importante e di revisione dell’assetto istituzionale, solo questo può condurla a un nuovo Rinascimento, altrimenti il centralismo ci farà sprofondare».
La tradizione leghista pre Salvini, in realtà, si trova se si analizza lo stile di governo, diretta alla riduzione della presenza dello Stato. «La riforma della sanità – diceva Zaia un anno fa – ha permesso di ridurre le aziende sociosanitarie da 21 a 9, ma soprattutto non abbiamo mai applicato l’addizionale Irpef sulla sanità dimostrandoci regione tax free, garantendo che circa un miliardo e 200 milioni di euro ogni anno rimanessero nelle tasche dei Veneti».
Tagli che sorprendono in piena emergenza coronavirus, con il Veneto che ha rappresentato una gestione virtuosa della crisi. Quando è arrivato il virus, Zaia si è fatto trovare pronto. O meglio, la sua regione lo ha fatto per lui: «Noi non abbiamo città metropolitane, quindi non ci possiamo paragonare ad altre grandi regioni», ha ammesso lui stesso.
È stato decisivo il lavoro preventivo fatto dal microbiologo dell’Università di Padova Andrea Crisanti. Già il 20 gennaio, cioè pochi giorni dopo che l’Oms aveva diffuso i primi protocolli per i test per rilevare il virus, e prima che si diffondesse in Italia, suggerì alla Regione un investimento per acquistare i reagenti per centinaia di migliaia di tamponi. La catena di comando della sanità veneta, ha raccontato una lunga inchiesta di Repubblica, ha provato a fermarlo, ma Crisanti è andato avanti lo stesso utilizzando parte dei fondi di un progetto dell’Imperial College di Londra.
Zaia offre una visione diversa: per lui la figura centrale del modello veneto è la dottoressa Francesca Russo. «Lei ha preparato il nostro piano di prevenzione, lei partecipa con me ogni giorno agli incontri con i direttori generali delle Usl», ha detto in conferenza stampa il 22 maggio, spiegando che la regione avesse previsto un piano tamponi anche prima dell’intervento di Crisanti.
Lo stesso Crisanti, però, ha rivendicato i suoi meriti e risposto alla dichiarazione del governatore ridimensionando il ruolo della dottoressa Russo: «Se aveva un piano sui tamponi deve spiegare perché ancora l’8 febbraio il suo ufficio mi ha intimato di non fare più i tamponi a chi tornava dalla Cina. Dire che aveva un piano è una baggianata».
Il 28 febbraio, una settimana dopo aver registrato il primo decesso, il governatore era in diretta in una trasmissione dell’emittente veneta Antenna Tre per parlare del contenimento del contagio nella sua Regione, parlando anche del contributo dei cittadini «con le loro buone abitudini». È in quell’occasione che ha detto: «Li abbiamo visti tutti, i cinesi, mangiare i topi vivi o altre robe del genere», una frase per cui si poco dopo si è scusato direttamente con l’ambasciata cinese.
Ad ogni modo, la risposta del Veneto all’emergenza è stata una delle migliori in tutta Italia. Non è stato così per la Lombardia, altra regione a guida leghista, che per la Lega è la nota dolente di questa emergenza, seguita dal Piemonte dell’altro governatore, come quello lombardo, scelto personalmente da Salvini.
È anche per questo che la settimana scorsa Giorgetti si è sfogato con il ministro della Salute Roberto Speranza dopo le accuse del deputato del Movimento Cinque Stelle, Riccardo Ricciardi, il quale in Parlamento ha irriso la sanità lombarda nella gestione del coronavirus. Ma quel momento di ira intercettato dai media è stato piuttosto un’eccezione per l’uomo del partito che è noto soprattutto per essere sempre sotto controllo e il giusto contraltare di Salvini.
Giorgetti è entrato in Parlamento con la Lega nel 1996 come deputato proprio nell’anno in cui il partito cambia nome in “Lega Nord per l’indipendenza della Padania”. All’inizio degli anni Duemila, Giorgetti è il principale autore della legge sulla procreazione medicalmente assistita (poi dichiarata parzialmente illegittima dalla Corte Costituzionale).
I suoi toni sono diametralmente opposti a quelli propagandistici di Salvini o anche di Claudio Borghi e di Alberto Bagnai. Ma è soprattutto la conseguenza del ruolo che ricopre: negli anni è stato segretario nazionale del partito, capogruppo alla Camera, presidente della Commissione Bilancio, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.
Oggi è Giorgetti il leghista che dialoga con gli altri partiti, con gli alleati all’estero, con i giornali e con le istituzioni. Ad esempio con il Qurinale e con il Vaticano, con cui cerca terreno comune su temi storicamente cari al Carroccio – come la famiglia tradizionale o l’obiezione all’aborto.
È stato lui a fare da mediatore quando Salvini, da ministro dell’Interno, superava il limite dentro il governo giallo-verde: come la scorsa estate, quando propose al Movimento 5 stelle di approvare definitivamente il taglio dei parlamentari alla Camera e poi di andare subito al voto, opzione non percorribile perché avrebbe precluso la possibilità dell’eventuale referendum popolare previsto dall’articolo 138 della Costituzione. Prima ancora, nel 2013 Giorgetti rientrava tra i “dieci saggi” chiamati da Giorgio Napolitano per elaborare un programma di riforme che potesse raggruppare una nuova maggioranza di governo.
Giancarlo Giorgetti è spesso paragonato a Gianni Letta, a lungo eminenza grigia di Berlusconi. È stato lui, subito dopo le elezioni del 2018, a condurre le trattative che hanno portato la Lega al governo con i Cinque stelle. Non a caso alla nascita del primo esecutivo a guida Conte ha ottenuto la seconda nomina più importante del partito, dopo quella di Salvini: quella di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.
Un ruolo che ha utilizzato con abilità, facendo spesso innervosire gli alleati che, si diceva, non lo sopportavano: «Loro con i punti fermi non aiutano a risolvere i problemi. Mentre Conte non ha sensibilità politica e fa comunque riferimento alla posizione politica di chi lo ha espresso. Non è una persona di garanzia», attaccava Giorgetti, che non è un uomo abituato a conquistare voti, a differenza di Zaia.
Quando parla di sé, Zaia non può fare a meno di raccontarsi a partire dalle umili origini: il padre meccanico, la passione per la campagna e il legame con la terra, la sua terra, che si manifesta anche nell’uso piuttosto frequente di espressioni dialettali.
Anche i titoli dei tre libri pubblicati aiutano a inquadrare il personaggio in questo senso, molto a suo agio quando ha ricoperto il ruolo di ministro dell’Agricoltura: ”Con le scarpe sporche di terra: un anno di rinascimento agricolo”; “La mia multinazionale: dalla terra alla tavola, viaggio al centro della questione alimentare”; “Adottare la terra: per non morire di fame”.
Zaia ha costruito la sua immagine legandola a doppio filo al Veneto, che d’altro canto si sente da lui rappresentato alla perfezione: «La sua forza – dice Andrea Altinier, che per dieci anni ha lavorato nello staff della comunicazione del governatore – è il suo essere molto presente e attivo in tutta la regione, qui in Veneto molti lo chiamano Luca, perché è uno che si presta a scambiare delle battute, non è glamour, e ha lo stesso stile di vita morigerato di sempre, lo stesso dei suoi conterranei».
Nel 1993 Zaia è diventato consigliere comunale a Godega di Sant’Urbano, poi nel 1998 presidente della provincia di Treviso. E tra il 2008 e il 2010 è sbarcato a Roma, da ministro dell’Agricoltura nel governo Berlusconi. «Una volta, quando era ministro – ricorda Altinier – Zaia andò a visitare un’azienda agricola del Veneto. Appena superato il cancello sentì un gruppo di manifestanti all’esterno che protestava contro le quote latte. A quel punto salì su un covone di paglia e, senza alcun copione, spiegò loro punto per punto la riforma e la ratio che c’era dietro, finendo tra strette di mano e qualche applauso».
Giorgetti invece è schivo, riservato, riflessivo. Non certo un tipo da comizio improvvisato sulla paglia. Ha avuto una sola esperienza amministrativa – nel suo comune d’origine, Cazzago di Brabbia (dal 1995 al 2004) – per il resto ha lavorato dietro le quinte del partito, rimanendo sempre vicino ai vertici, specialmente a Umberto Bossi.
Proprio con il Senatùr sembrava avere un legame particolare: nel 2000 Giorgetti è stato tra i 15 dirigenti scelti da Bossi – dal quale dice di aver imparato «i metodi stalinisti» – per la segreteria federale, con il ruolo di responsabile del settore economia (è laureato alla Bocconi); e si dice che fu proprio proprio Giorgetti uno dei primi ad arrivare in ospedale quando nel 2004 l’allora leader leghista ebbe un ictus cerebrale. E probabilmente ci fu sempre lui, pochi mesi dopo, dietro l’idea di inviare un messaggio registrato con la voce di Bossi in occasione del primo annullamento del raduno di Pontida.
Oggi Giorgetti è l’elemento di congiunzione tra la Lega del Senatùr e quella di Salvini. Ma le sue posizioni, anche se espresse con toni semplici e pacati, non sono molto diverse da quelle dei suoi colleghi.
«Non penso che Giorgetti abbia un’altra impostazione rispetto al partito – dice Pierfrancesco Majorino, europarlamentare del Pd – quanto meno perché non c’è nulla di concreto che lo suggerisca, se non una comunicazione più pacata».
Al Congresso della Lega, tenutosi a Parma il 21 maggio a mozione presentata da Giorgetti (presidente Lega Nord-Lega Lombarda) al congresso federale della Lega tenuto a Parma il 21 maggio 2017?
Non più tardi della scorsa estate, al “meeting” di Rimini, la manifestazione organizzata annualmente dall’organizzazione cattolica Comunione e Liberazione, Giorgetti rispondeva così a una critica di Roberto Speranza (non ancora ministro della Salute) sulla necessità di maggiori fondi per la Sanità: «È vero, mancheranno 45mila medici di base nei prossimi cinque anni. Ma chi va più dal medico di base? Quelli che hanno meno di cinquant’anni vanno su internet, si fanno fare le autoprescrizioni, cercano lo specialista. Tutto questo mondo qui, quello del medico di cui ci si fidava anche, è finita anche quella roba lì».
Salvini si fida molto di Giorgetti e probabilmente è anche per non scontentarlo che oggi non ha ancora assegnato una delega per l’economia all’interno del partito dove militano anche Bagnai e Borghi. Salvini però vorrebbe mantenere la Lega su posizioni euroscettiche, ma sa che il pragmatismo di Giorgetti è fondamentale in una situazione di emergenza come questa. È questo il motivo per cui non ha ancora preso una decisione dal forte valore simbolico: deve prevalere la Lega di lotta o la Lega di governo?
Sull’economia il partito si divide tra i toni aggressivi di Borghi e Bagnai e quelli più pragmatici di Giorgetti. Lo spiega il caso dei minibot di un anno fa. Giorgetti ha stroncato la proposta economica di Borghi sulla possibilità di introdurre titoli di stato di piccolo taglio per ridurre il debito della pubblica amministrazione nei confronti dei creditori. «Ma vi sembrano verosimili i minibot? Se si potessero fare, li farebbero tutti», aveva detto Giorgetti.
Ma al di là di questo non c’è mai stato un vero terreno di scontro con Salvini. Il 14 maggio scorso, in un’intervista al Wall Street Journal, Giorgetti ha espresso quella che è stata indicata come una nuova linea, pur essendo poco più che una versione edulcorata del solito euroscetticismo: «Noi non vogliamo uscire. Ma non siamo più i soli a dire che molto deve cambiare. Così non si regge».
Ciò che regge invece è l’illusione della doppia anima della Lega. Anche se probabilmente non esiste.