La spaccatura parlamentare sul decreto Cura Italia seppellisce ogni possibilità di gestione unitaria dell’emergenza e del dopo-emergenza. Era il decreto sul quale sarebbe stato più facile trovare la via di una discussione parlamentare rapida e condivisa, con emendamenti ridotti al minimo (cinque, dieci per gruppo), correzioni concordate e approvazione unanime. Nessuno ci ha provato sul serio, quindi ha prevalso il solito schema: 1.126 emendamenti, la metà presentati dalle forze di governo; discussione impossibile per questione di tempi; richiesta di fiducia; voto l’un contro l’altro armati. Tutto come da routine, compreso il ritardo nella consegna del testo e lo show acchiappa-clic sui banchi, col duello tra Ignazio La Russa e il grillino Vincenzo Presutto a proposito di una mascherina indossata male.
Non esistono reali motivazioni tecniche per questa improvvisa lacerazione. Il Cura Italia distribuisce 25 miliardi di euro ai soggetti più fragili della crisi, era sicuramente migliorabile (come ogni cosa in natura) ma per decine di migliaia di italiani costituirà una boccata d’ossigeno appena i soldi saranno effettivamente corrisposti. Il rifiuto di un percorso solidale, da ambo le parti, risponde a esigenze tutte politiche: la maggioranza non intende spartire con nessuno la gloria delle “poderose risorse” messe in campo contro la crisi da Covid; l’opposizione non intende rinunciare a sparare su Palazzo Chigi quando, con la fine del lockdown, si riaprirà il palcoscenico dei partiti e la corsa dei sondaggi.
L’evoluzione della storia è già scritta perché i semi sono stati piantati e innaffiati in questa settimana. Sinistra e M5S useranno il caso del Pio Albergo Trivulzio e degli ospedali bergamaschi per mettere sotto processo, non solo metaforicamente, la Lega e il modello lombardo, cavalcando l’ira dei medici e la sofferenza dei parenti delle vittime. Matteo Salvini strumentalizzerà il compromesso sugli interventi dell’Unione – qualunque esso sia – per rilanciare la polemica anti europea e picconare gli indici di fiducia del governo. La «crisi senza precedenti», il «momento più drammatico dal dopoguerra a oggi», il «disastro che potrebbe affondarci» sarà così gestito con le modalità consuete del pollaio Italia, contraddicendo ogni singola parola pronunciata durante la fase acuta dell’epidemia per marcare la portata dell’emergenza e chiedere ai cittadini gli immensi sacrifici necessari a superarla.
È la prima volta nel nostro Paese che i partiti, davanti a un evento potenzialmente disastroso per l’interesse nazionale, risultano incapaci di accantonare le loro particolari convenienze. Non è successo col terrorismo. Non è successo coi terremoti. Non è successo con la crisi dello spread del 2011 (anche se una parte del Centrodestra finge di dimenticarselo). Così, il voto di ieri in Senato segna una frattura non solo rispetto ai primi interventi della lotta al virus, dove l’intesa bipartisan è stata la regola, ma anche nei confronti di una consolidata tradizione “di sistema”: la norma non scritta secondo cui, davanti a fatti eccezionali, si attivano senza se e senza ma gli strumenti dell’unità repubblicana.
Ma rispetto ai precedenti, nella mancata ricerca di intese “alte” per contrastare l’emergenza, in questa circostanza c’è anche un risvolto che potremmo definire etico. Sessanta milioni di italiani stanno portando quasi fisicamente la croce della crisi, accettando limitazioni senza precedenti alle loro libertà e condividendo, con rarissime trasgressioni, l’invito a fare fronte comune contro il Covid. È quasi indecente che quell’invito sia disatteso proprio dalla politica, che dovrebbe rappresentarlo al massimo livello, farsene modello esemplare per tutti.
I partiti litigano pure sul Cura Italia, l’unità nazionale è un’utopia