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I professionisti dell’allarme democratico a targhe alterne

Il cosiddetto “allarme democratico” ha costituito, per decenni, il framework narrativo della sinistra conformista, che, oltre a incatenare il discorso pubblico a un’interdizione tipicamente clericale, ha delegittimato i faticosi tentativi della sinistra riformista di addentrarsi, pure con mille prudenze, sul piano delle riforme istituzionali. Dal punto di vista politico, “la difesa della Carta” è stata una sorta di continuazione, con altri mezzi, della guerra avviata con la “questione morale”, ma trascinata dal piano del linciaggio mediatico-giudiziario a quello della prosopopea costituzionale.

Non c’è stata riforma istituzionale – dal sistema maggioritario al superamento del bicameralismo paritario – che dalla metà degli anni ’80 ad oggi sia stata proposta per rendere meno irresoluta e inefficiente la nostra democrazia parlamentare, che non sia finita schiantata sotto l’implacabile maglio dei difensori della Costituzione più bella del mondo. 

In particolare a suscitare immediato l’allarme è sempre stato il proposito di rafforzare il carattere “decidente” del sistema democratico e la responsabilità degli esecutivi. Poco più di tre anni fa, un fronte variopinto e trasversale che andava dagli ultimi giapponesi del comunismo leninista ai camerati di Casa Pound, passando per i grandi numi del costituzionalismo italiano e della “vera” sinistra e per gli orbaniani de ‘noantri Salvini e Meloni, ha sotterrato la riforma costituzionale di Matteo Renzi sotto l’inemendabile accusa di volere istituire niente meno che una “dittatura del premier” e di volere sabotare il sistema di garanzie costituzionali erette a controllo dell’attività di governo. Ed è significativo che lo stesso fronte si sia trovato concorde, tre anni dopo, a benedire il cosiddetto “taglio dei parlamentari”, cioè la mutilazione delle camere di un terzo degli eletti, per consegnarne lo scalpo al partito del disprezzo del Parlamento e dell’odio della democrazia rappresentativa.

In questo contesto, potrebbe apparire contraddittorio che le critiche, sempre più fondate, alla gestione costituzionale della pandemia da parte del Presidente del Consiglio non abbiamo suscitato alcuna eco tra i professionisti dell’allarme democratico, ma al contrario abbiano procurato una levata di scudi in favore dell’uomo solo al comando e all’esercizio dei pieni poteri del Presidente Giuseppe Conte. Ma è una contraddizione apparente, proprio perché il cosiddetto “allarme democratico”, come del resto la “questione morale” non sono mai state – letteralmente mai – l’espressione di una vera intransigenza, ma la manifestazione di una doppia coscienza ideologica. 

Nell’appello pubblicato negli giorni scorsi dal quotidiano Il Manifesto, in cui ricorrono le firme del gotha dell’intellighenzia della sinistra-sinistra (Carlassarre, Ferrajoli, Marramao, Ignazi, Revelli, Urbinati e decine di altri), le critiche alla scelta della compressione delle libertà costituzionali attraverso uno strumento, il decreto del presidente del Consiglio dei Ministri (Dpcm), non sottoposto a controllo parlamentare e neppure deliberato dalla collegialità del governo, sono stati liquidate come un mero escamotage da parte «di democratici ”liberali”» (“liberali” tra virgolette nel testo) per «gettare le basi per un altro governo: un governo dai colori improbabili o di pretesa unità nazionale, di cui non s’intravede nemmeno vagamente il possibile programma, tolto un disinvolto avvicendamento di poltrone ministeriali e la spartizione di cariche di alto rango».

Che una materia sottoposta a riserva di legge in Italia continui a essere disciplinata da Dpcm, circolari, ordinanze delle regioni e – ultima fonte del diritto – dalle Faq sul sito di Palazzo Chigi non rileva, per tutti questi sapienti, di fronte al rischio di vedere collassare la maggioranza giallorossa. Il fine della lotta al nemico (Salvini e la destra), giustifica il mezzo del sabotaggio costituzionale e ne giustifica la difesa. Se Salvini avesse fatto le cose che fino ad oggi ha fatto Conte, avrebbe meritato un giudizio più severo, anzi definitivo, ma solo perché è Salvini. Non contano gli atti, gli errori, gli eccessi, ma chi li compie.

Questo governo sta seguendo perfettamente l’agenda del precedente governo gialloverde, non ha cambiato una virgola dei suoi “decreti vergogna” e non ha sollevato dal suo scranno uno solo dei “ministri vergogna” – a partire da Luigi Di Maio e Alfono Bonafede – ma i sacerdoti della Resistenza contro il vecchio governo oggi vestono i panni dei pronubi del compromesso storico populista e i difensori del Conte successore di se stesso. 

Marco Pannella, che ieri avrebbe compiuto novant’anni, si è sempre fatto odiare per avere denunciato in queste spettacolari giravolte della sinistra più tetragona non un mero tatticismo amorale, ma una ben peggiore etica della tribù, un’idea di sé e del mondo fondata su una pretesa di autorità e di immunità che ha più parentele con l’Inquisizione che con la Rivoluzione. Questo appello in difesa di Conte conferma, per l’ennesima volta, le ragioni di Pannella.

I professionisti dell’allarme democratico a targhe alterne

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