Qualche giorno fa l’Espresso dedica un ampio articolo alle «consulenze d’oro» di Roberto Burioni. Ieri sulla Stampa Piergiorgio Odifreddi, in un pezzo contro «i medici mediatici», rilancia l’accusa, circolata da tempo on line, secondo cui Burioni il 2 febbraio avrebbe detto a Che tempo che fa che «in Italia il rischio di un’epidemia di Covid era zero, a causa delle precauzioni prese».
Non c’è trasmissione televisiva in cui ogni giorno un qualche virologo non dissemini il suo intervento di insistenti e fin troppo trasparenti allusioni ai cachet, agli interessi o alla vanità personale di imprecisati colleghi, e tutti capiscono benissimo con chi ce l’ha. Per la cronaca, si tratta di scienziati non meno presenti in tv e per loro stessa ammissione non meno onusti di consulenze (resterebbe poi da capire per quale ragione un medico dovrebbe lavorare gratis per la Ferrari o per qualsiasi altra grande azienda: volontariato che semmai beneficerebbe i titolari della società, non certo il proletariato).
E così ieri, quando Burioni ha detto al Corriere della sera di non poterne più, e di volersi prendere una pausa dalla televisione, Nicola Porro ha commentato l’intervista, in un video sul suo blog, con le seguenti parole: «Burioni non è un pallone gonfiato, è più di un pallone gonfiato. Lo vedete nella faccia, è il vostro vicino di banco a scuola… il compagno che sa tutto lui, il fenomeno, quello che ha il Fantic 50. Avete presente la testa di minchia del vostro compagno di scuola che vorreste prendere a calci nel sedere ma non potete perché è nato bene, è amico dei professori ed è il secchione protetto da tutti? Burioni. Burioni è quella roba lì».
Sempre per la cronaca, Burioni è stato tra i più assidui nel mettere in guardia dai rischi del coronavirus, e in particolare dalla possibilità che il contagio fosse trasmesso dagli asintomatici, anche prima del 2 febbraio (il giorno della famosa intervista a Che tempo che fa, in cui peraltro si era limitato a dire un’ovvietà, e cioè che finché il virus in Italia non circolava, non c’era possibilità di contrarlo).
Tanto è vero che una settimana prima, il 22 gennaio, diceva a Linkiesta che l’Italia era a rischio («Le autorità europee hanno affermato che il rischio che il virus arrivi in Europa, e in particolare in Italia, è minimo. Io non sono per niente d’accordo con loro, ma spero vivamente di sbagliarmi»). Tanto è vero che il 3 febbraio, cioè il giorno dopo la famosa puntata di Che tempo che fa, difendeva pubblicamente la posizione dei presidenti di Regione leghisti guidati da Luca Zaia, quando chiedevano al governo di disporre la quarantena per chi tornava dalla Cina. Per evitare, per l’appunto, che il virus cominciasse a circolare.
E il 23 febbraio, quando ormai il Covid era arrivato (il paziente 1 è stato individuato il 20), replicava in modo fin troppo brutale alla collega Maria Rita Gismondo (ragion per cui venne giustamente criticato, e si dovette scusare), responsabile – lei sì – di avere decisamente sminuito i rischi del virus, definendolo poco più di una semplice influenza.
La verità è che la campagna contro Burioni è perfettamente analoga a quella condotta a suo tempo contro Laura Boldrini e le Ong. Stessi propalatori, stessi strumenti, stesse finalità. C’è un sapore squisitamente anni Trenta nel lessico, negli argomenti e nella logica della campagna contro l’«ipocrisia», l’«antipatia» e l’«arroganza» del medico che tra i primi ha messo in guardia sui rischi per la salute di tutti noi causati dal populismo e dal negazionismo no vax.
È evidente il tentativo di rendergli la pariglia accusandolo di avere fatto l’esatto contrario, cioè di essere lui il negazionista, ovviamente per oscuri e inconfessabili interessi. Esattamente la stessa logica della campagna contro Boldrini e contro le ong, vittime di un identico rovesciamento dei ruoli tra vittime e carnefici, con l’accusa di essere loro le vere responsabili dei morti in mare, anche loro ovviamente per «farci i soldi», anche loro ovviamente al servizio di oscuri interessi, marionette nelle mani di Soros e del capitalismo globale.
La tragedia, quello che rende la situazione così tremendamente evocativa degli anni Trenta, non è che i fascisti facciano i fascisti, in piazza o sui social network. La tragedia è che tanti intellettuali, politici e semplici cittadini, anche a sinistra, abbocchino all’amo e si uniscano al coro. La tragedia è che basti così poco per finire dentro un meccanismo inarrestabile, in cui si perde di fatto qualsiasi diritto, in cui si può diventare bersaglio fisso per valanghe di insulti, accuse e insinuazioni senza fondamento.
I trafficanti di fake news e la tragedia degli intellettuali colpiti dal virus anni Trenta