Le giornate storte possono capitare a tutti. Quella di ieri, per i Cinque Stelle, è peggio di una giornata storta. Prima l’arresto di Marcello De Vito, presidente dell’assemblea capitolina, primo candidato sindaco pentastellato nella Capitale, per tangenti sullo stadio della Roma. Poi il salvataggio di Matteo Salvini dal processo Diciotti sottratto alla giustizia proprio da chi è nato per combattere l’impunità dei politici. I moralizzatori che prendono tangenti. I giustizialisti che salvano dal rischio di condanna uno di loro. Applausi.
Già così ce ne sarebbe abbastanza per decretare il fallimento non di un partito – che può sopravvivere in mille altri modi: la Lega un tempo era federalista, per dire -, ma di un’idea di politica fondata sulla cultura del sospetto come anticamera della verità, sul mito della società civile come forza moralizzatrice, sul rifiuto del primato della politica. Un costrutto ideologico, questo, che ci portiamo dietro dal 1992, quando erano socialisti e democristiani a finire in galera per tangenti e a votare contro alle autorizzazioni a procedere, e che ha attraversato le fasi del berlusconismo e del girotondismo per farsi Movimento politico grazie a Beppe Grillo, uno che fino a qualche anno fa teorizzava giulivo il sequestro preventivo dei beni dei politici.
Ed eccoli, ora, i moralizzatori della domenica, quelli dello Spazzacorrotti, appena usciti demoliti dallo psicodramma di Giulia Sarti, che cacciano De Vito dalla loro anima, per direttissima, con un post su Facebook di Di Maio in modalità santa inquisizione, con lo stesso disprezzo e la stessa sufficienza con cui Craxi liquidò Mario “mariuolo” Chiesa. E per quanto non auguriamo a Di Maio lo stesso destino toccato in sorte al leader socialista, forse qualche lezione la dovrebbe trarre, il capo politico dei Cinque Stelle. Che la società civile genera mostri. Che il pauperismo in politica aumenta esponenzialmente il rischio di corruzione. Che il primato della politica non è tale per un vezzo castale. Che ostentare purezza e alterità in campagna elettorale funziona solo per le forze destinate a un’eterna opposizione.
Che la politica è un’altra cosa, soprattutto. Magari non il sangue e la merda, come disse Rino Formica. Ma selezione paziente di una classe dirigente incorruttibile perché competente, strutturata, consapevole, non viceversa. Ma primazia della forma partito come bacino di formazione di questa classe politica, senza scorciatoie, paracadute, mandati brevi, non un ipocrita movimentismo dove uno vale uno e la Guida Suprema è l’Asso pigliatutto. Ma affermazione e rivendicazione dell’autonomia del politico da chi l’ha eletto, che una legislatura non è un piano quinquennale in cui si realizza ciò che si è promesso in campagna elettorale, ma l’esercizio dell’arte del possibile, nel contesto eternamente mutevole in cui ci si trova, con gli alleati che le percentuali elettorali ti mettono di fronte.
I Cinque Stelle probabilmente non finiranno nel giorno in cui finisce l’inverno del 2019. Ma la loro sopravvivenza dipende dalla loro evoluzione. Se davvero si struttureranno come un partito, se apriranno alle alleanze, se aboliranno il vincolo dei due mandati, se smetteranno di usare l’arma dell’espulsione e della damnatio memoriae come arma di distruzione del dissenso interno, ma anzi lo tuteleranno come un bene prezioso. Se, infine, capiranno che il miglior antidoto alla politica dei mariuoli e delle irripetibili congiunzioni astrali è un sistema di finanziamento pubblico della medesima, ecco, quello sarà un gran giorno per la democrazia italiana. E questa assurda parentesi gialloverde, in mezzo a tanti disastri, sarà servita a qualcosa. Non ci speriamo granché, ma farlo non costa nulla.
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