Se fosse un western diremmo che il cattivo è tornato in città trascinando gli speroni nella polvere, la colt penzolante su un fianco, lo sguardo beffardo. Alessandro Di Battista è tornato, già, e a Luigi Di Maio fischiano le orecchie, il messaggio gli è arrivato chiaro e forte sotto forma di un bizzarro endorsement a favore di un altro “bandito” (letteralmente, nel senso di cacciato via), Gianluigi Paragone. Per la serie i nemici dei miei nemici sono miei amici, ecco Dibba elogiare il grillismo puro di uno che peraltro grillino non è mai stato, al massimo era l’agente a L’Avana di Salvini, la quinta colonna nel Movimento portata ivi di peso direttamente dal pratone di Pontida.
Bene, dopo mesi di silenzio trascorsi all’estero, come al solito senza cavare un ragno dal buco, consapevole della conclamata irrilevanza politica, in vista del più inesorabile dei dimenticatoi, “Ale” ha rotto gli indugi, e con “Gianluigi” è stato tutto uno scambio di ringraziamenti reciproci, affratellati nel comune disprezzo per l’andazzo, invero triste, del Movimento. Con battuta frusta, la sintesi è che non ci sono paragoni fra Paragone e chi lo ha espulso, tesi che ha suscitato l’entusiasmo di uno Stefano Fassina ormai para-maoista, dopo essere stato sottosegretario di Mario Monti all’epoca del loden.
Certo, ormai Dibba non è più nessuno nemmeno nella base pentastellata che ormai è polverizzata come dopo un big bang, e, sfortuna delle sfortune, pare che la legislatura vada avanti, e con essa la chimera dello stipendio da parlamentare, ammesso e non concesso che gli elettori si ricorderanno di lui.
Dunque, meglio tornare in campo brandendo il grillismo della prima ora, quell’allucinante miscuglio di anticapitalismo antieuropeismo antiparlamentarismo eccetera eccetera che gonfiava un tempo le vele del Movimento e le vene sulla fronte dei suoi capi e capetti (la più celebre, quella di Di Maio ebbro sul balcone di Palazzo Chigi), sì, lo tsunami di Beppe, i vaffa, le salite sui tetti di Montecitorio, gli assalti alla presidenza di Laura Boldrini, gli abracadabra dell’uno-vale-uno, Rousseau e Toninelli uniti nella lotta (e al Pantheon parigino Jean-Jacques si rivoltava), e c’era lui, il guevarista de’noantri, “Ale” il bello, che le cantava chiare chiare a tutti. Bei tempi.
Ma poi venne l’ora del governo – e passi per la fuffa gialloverde, ma l’alleanza con Renzi e il-partito-di-Bibbiano, questo no: ed è da quel momento che Dibba, dentro di sé, ha lasciato il Movimento diventato Partito, avendo tradito la Rivoluzione per il Termidoro, passando dall’assalto al cielo al piccolo cabotaggio contian-dimaiano. E oggi proprio l’ex giacobino Di Maio ghigliottina Paragone, un Saint-Just dei poveri che ha in testa, come Dibba, una nuova stagione sanculotta – solo che nel frattempo i vecchi giacobini non esistono più. Sempre la storia della Rivoluzione che mangia i suoi figli (o figliastri come il conduttore della Gabbia), è lo stesso dramma di Trotsky, che in nome del vero bolscevismo pretendeva di rovesciare la dittatura di Stalin e venne massacrato, lui e i suoi in mezzo mondo. O dei sansepolcristi, i fascisti della prima ora, inorriditi dal Mussolini del regime. Perché la lezione della storia è che quando la Rivoluzione va al potere e si istituzionalizza c’è poco da fare: non tornerà mai com’era alle origini. Ma anche se qui di rivoluzionario c’è stato ben poco, una roba da repubblica delle banane, il ciclo del Movimento appare modellato sul calco ben noto dell’esaurimento della spinta propulsiva.
Che fare dunque? Riprendersi il Movimento in chiave Sansepolcro o inventarsi un Movimento 2.0? La prima strada è sbarrata dalla storia, la seconda da Davide Casaleggio, a cui sta molto meglio il governismo dimaiano che l’edonismo dibattistiano. Ecco perché la ruota che Dibba vorrebbe far girare all’incontrario avrebbe in sé qualcosa di tragico se non fosse, dato il personaggio, ridicolo. E comunque votato alla sconfitta. Una sconfitta nella sconfitta, peraltro. Giacché non sarà il Che Guevara apprendista falegname a buttar giù il Capo politico. Basta Di Maio a impensierire Di Maio. Però intanto il cowboy è tornato.
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