Dirige sostanzialmente il governo, e se avesse voluto avrebbe potuto guidarlo anche formalmente. Gliel’avevano chiesto una quindicina di giorni fa ma il «senso di responsabilità» gli ha imposto di rispondere: «No, grazie».
Avrete capito che stiamo parlando di Dario Franceschini, l’uomo forte del governo, l’unico che possa dire al telefono a Conte che così non va, troppo molle l’immagine del governo in quest’ultima fase, troppe incertezze, lentezze, contraddizioni.
Questo è il punto: Franceschini è esperto, attivo, temuto da tutti laddove il premier rivela a ogni piè sospinto la sua impreparazione, la sua impoliticità, la sua frequente cedevolezza al movimento inerziale delle cose. In Consiglio dei ministri se ne rendono conto tutti.
Quando ce n’è bisogno, la mediazione del ministro della cultura silenzia la discussione. I ministri dem capiscono l’antifona e nessuno obietta. Anche i grillini, tranne Di Maio che non vuole sentirsi inferiore, si placano. Ed è stato Matteo Renzi, da tempo, a far notare ai suoi che se il Pd fosse d’accordo si potrebbe sostituire Conte con «Dario», perché «è il più bravo», confermano da Italia viva, meglio un Franceschini uno invece di un Conte ter.
È un dato di fatto che dietro ogni mediazione ci sia lui, il ministro della cultura e del turismo (oggi che il settore è nel dramma si vede quanto sia stato importante sottrarlo al dicastero dell’agricoltura, dove in epoca gialloverde il leghista Marco Centinaio l’aveva conficcato).
Ed è anche sfruttando l’intuizione di Walter Veltroni – quella di prendersi la cultura – che il suo ex vicesegretario ai tempi del Pd originario fa di quel ministero un formidabile asset politico e d’immagine.
Franceschini ha avuto la regia politica del decreto Rilancio mentre Roberto Gualtieri cercava di far quadrare i conti con la calcolatrice. Allo stesso modo è stato spesso e volentieri il capodelegazione del Pd a telefonare ai vari ministri per spegnerne i bollori. Attento, ovviamente, a non scontentare nessuno.
Sta qui l’essenza del doroteismo, che non è solo, banalmente, gioco di potere ma istinto del compromesso, qualcosa che ha persino dell’impalpabile, come una voce di dentro che sussurri quale sia il punto esatto su cui far cadere l’accordo.
Dario Franceschini, che pure non viene da quella scuola ma da quella lontana del dossettismo, negli anni si è però impossessato di quel tocco della mediazione indissolubilmente legato all’occupazione del maggior spazio politico possibile: e non è un caso che i “franceschiniani” siano ben appostati nei punti chiave della politica italiana, dal Quirinale in giù.
Chiusa la pratica del decreto di maggio (che poi chiusa non è, il testo arriverà al Colle non prima di domenica), Franceschini si è occupato di striscio anche dell’accordo spartitorio sulla Rai, ultimo esempio in ordine di tempo dello stile “pentapartitico” del governo Conte. Lo ha fatto d’intesa con gli “Zingaretti boys” che dal Nazareno hanno seguito la vicenda ma come per ogni cosa importante l’imprimatur lo ha apposto lui.
Un accordo – notiamo di passaggio – che ripropone con qualche peggioramento l’antica spartizione della torta (Tg1 al governo-M5s, Tg2 alla destra, Rete 3 e Tg3 al Partito democratico), un’altra occasione perduta per rinnovare almeno qualcosina. Invece niente.
Nel Pd è difficile che si muova foglia che “Dario” non voglia. Le scelte politiche sono appannaggio del triangolo Zingaretti-Orlando-Franceschini, ma se il terzo non è d’accordo, segretario e vicesegretario non procedono.
E non è un caso se il nervosismo del Nazareno segua sempre quello del capodelegazione al governo. Come sta accedendo in questi ultimi giorni. È lui a dettare gli umori al suo partito, ed è lui la carta che una maggioranza in bilico può giocare se l’avvocato non regge. Franceschini in cuor suo non tifa per questo esito ma se le cose si dovessero mettere male non potrebbe tirarsi indietro.