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Il gran valzer dei partiti per la guida di Roma (dopo i disastri di Raggi)

Alla fine il compromesso romano nella destra prevede Fratelli d’Italia al Campidoglio (si vota l’anno prossimo) e la Lega alla Regione Lazio (si vota fra tre anni). Le scelte cadrebbero dunque su Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera, lunghissima militanza nel Movimento sociale, poi An ora appunto FdI, partito in crescita che a Roma può vantare un suo radicamento “storico”. E su Claudio Durigon, l’unico leghista di un certo rilievo del Lazio (è di Latina), già sottosegretario al lavoro nel primo governo Conte.

Il partito di Giorgia Meloni, com’è noto, “è” la destra romana, e la sua leader considera Roma un affare suo, del suo partito. Non esponendosi lei in prima persona, la scelta cade su Rampelli, che in fondo ricopre la carica istituzionale più importante per quel partito: e nella torsione che la leader sta cercando di dare a FdI il tratto istituzionale è assolutamente imprescindibile, tanto più a cospetto della crescente involuzione “citofonica”, e non solo, di Matteo Salvini.

La Meloni insomma punta a garantire il massimo di affidabilità istituzionale e democratica cercando di mantenere un’immagine quasi neo-centrista sul piano generale ma al tempo stesso battagliera sulle grandi ferite sociali che in una città come Roma sono decuplicate, dall’immigrazione allo stato delle periferie, dai servizi all’ambiente. La zavorra del passato è comunque destinata ad avere un certo peso non tanto per il ricordo dell’epoca lontanissima dei “neri” che nella Capitale lasciarono più di un segno cattivo, quanto per la più recente, disastrosa esperienza di governo di Gianni Alemanno, stessa generazione, stesso ambiente di Rampelli che di Alemanno fu grande amico nonché procacciatore di voti. Malgrado la “ripulitura” istituzionale, la sensazione di andare a frugare non solo nell’album di famiglia “nero” ma in quello di un ex sindaco che ha avuto recentissime condanne giudiziarie verrà certamente alimentata dai suoi avversari, e questo può essere un problema.

Come si ricorderà, infatti a Alemanno è stata inflitta in primo grado una condanna di sei anni di carcere e interdizione perpetua dai pubblici uffici per corruzione e finanziamento illecito in un filone dell’inchiesta Mondo di mezzo, quella di Buzzi e Carminati, per intenderci.

Ma perché dunque non puntare sulla figura più fresca di Giorgia? Certo, non basta conquistare una menzione sul Times di Londra per prendere il Campidoglio, e tuttavia la leader nata e cresciuta a Garbatella avrebbe molte frecce al suo arco: però tutti sanno che lei è ormai proiettata su un’altra partita, quella nazionale, nella quale potrebbe persino spuntarla come candidata della destra a Palazzo Chigi nel caso non inverosimile di una caduta di consensi di Salvini. Come minimo, in governo di destra, nessuno potrebbe negare a Giorgia Meloni un dicastero di primissima fascia: perché allora puntare le fiches sul tavolo impazzito del comune di Roma, dove tra l’altro si guadagna molto meno e i rischi di una figuraccia sono alti? Il ragionamento non fa una grinza. Toccherebbe a Rampelli, dunque, scendere in campo per tornare al potere in una Capitale d’Italia dove le emergenze, grazie a Virginia Raggi, sono state abbondantemente superate e dove dunque una certa domanda di ordine e tolleranza zero potrebbe avere un richiamo.

Alla Lega di prendersi Roma non importa molto, soprattutto perché non saprebbe da che parte cominciare. Non ha uomini, non ha idee, non ha niente. Con Roma non c’azzecca nulla. Meglio lasciare la patata bollente ai “carissimi” alleati di Fratelli d’Italia e magari spartirsi poi la torta del ricco potere romano: e se si perde perde Giorgia, non Matteo. Il quale “si accontenterebbe” della poltrona alla Pisana dove oggi siede Nicola Zingaretti. Ma parliamo di un voto fra tre anni – se la giunta regionale regge – chi può dire cosa sarà successo nel frattempo. Però intanto l’ipotesi leghista è stata posta.

Dall’altra parte, il centrosinistra ha iniziato a ragionare sul suo candidato. La Stampa, con un attento articolo di Fabio Martini, ha riportato due nomi su tutti, Carlo Calenda e Enrico Letta. Dando per scontato l’inabissamento del M5s dopo il disastro della giunta Raggi, la sinistra accarezza l’idea di un clamoroso ritorno alla guida della Capitale. Una cosa che pareva impossibile e che in effetti è molto difficile. In questo quadro, il nome di Calenda gira da tempo ed è effettivamente il più accreditato, mentre quello dell’ex premier pare più un nome buttato sul tavolo da chi non ama Calenda dato che Letta, come si dice, è una preziosa “riserva della Repubblica”, le sue ambizioni sono diverse. Da quel che si capisce, il fondatore di Azione ci sta seriamente riflettendo, ma avrebbe fatto capire che a farsi condizionare dai partiti (leggi: Pd) non ci pensa minimamente. Se si candida, Calenda vuole mani completamente libere su tutto. E non è affatto detto che il Nazareno e il tradizionalmente complicato Pd romano accettino queste condizioni.

https://www.linkiesta.it/it/article/2020/02/15/roma-raggi-m5s-comune-elezioni/45447/

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