Stefano Fassina, Peppe Provenzano ed Emanuele Felice, forse c’è un micidiale virus del nonsense nelle stanze dei responsabili economici della segreteria del Partito democratico.
Solo così si può spiegare il bocconiano Fassina ridottosi a fare convegni sovranisti con i lepenisti italiani, il ministro Provenzano che prima ha provato a smontare il modello Milano, ovvero l’unica esperienza politica di successo che il suo partito poteva vantare, e poi, nei giorni scorsi, ha dato manforte al vicesegretario Andrea Orlando contro la scelta di Fca di utilizzare una norma adottata dal governo di cui fa parte e scritta dal ministro del Pd Roberto Gualtieri.
Iniziata con la suggestione di Orlando a proposito di una presenza pubblica nelle aziende private colpite dalla pandemia e aiutate dallo Stato, la settimana sembrava già bella piena. Senonché è arrivato Emanuele Felice, l’attuale responsabile economico della segreteria del Pd, a sovraccaricarla.
Felice ha sostenuto su Twitter che la Lega è un partito liberista. A questo punto non si capisce bene se le parole, in particolare la parola liberista, non abbiano più senso o se sia il Partito democratico ad aver perso qualsiasi logicità.
La Lega è fin dalla sua fondazione il partito più statalista d’Italia, assieme a quello della Meloni, a cominciare dalla struttura organizzativa leninista fino alle alleanze internazionali con gli alfieri di modelli politici illiberali. In una scala di liberismo, la Lega sta cinque o sei posizioni sotto il Pd, la cui classe dirigente negli ultimi tre decenni ha adottato le politiche di austerità e le privatizzazioni con Amato, Ciampi, Prodi e D’Alema, le liberalizzazioni con Bersani e le riforme del mercato del lavoro con Renzi. Nel frattempo nessuno ha mai accusato Bossi o Salvini di aver trasformato Palazzo Chigi in merchant bank che parla padano.
La Lega, al contrario, è il partito delle piccole patrie e contro la globalizzazione da molto prima che essere contro la globalizzazione fosse di moda. Il suo primo atto di rilevanza politica è stato far saltare il governo Berlusconi sulla riforma previdenziale, una materia che dalla moglie di Bossi andata in pensione a 39 anni alle contumelie contro Elsa Fornero fino all’approvazione di quota cento, ovvero lo scivolo per mandare anticipatamente in pensione a spese dello Stato, è sempre stata nel cuore del Carroccio.
I liberisti preferiscono che sia la mano invisibile del mercato, non quella dello Stato, a regolare l’economia. Solo pochi giorni fa, Salvini ha presentato un piano di interventi statali che avrebbe potuto fare da prefazione a “Lo Stato innovatore” di Mariana Mazzucato.
I liberisti – in realtà non solo i liberisti, ma anche i liberali – sono favorevoli alla libera circolazione dei beni, dei capitali e delle persone. La Lega non è favorevole a niente di tutto ciò: è protezionista, contraria ai trattati di libero scambio, antagonista sull’Europa e per uscire dalla moneta unica, tanto che uno dei suoi responsabili economici, Alberto Bagnai, ha definito «merde quelli che difendono la mobilità dei capitali».
Non credo, infine, che ci sia bisogno di ricordare quanto l’ex “comunista padano” Salvini sia refrattario a far circolare liberamente le persone, perché altrimenti impegnato a sbarrare le frontiere e chiudere i porti.
Eppure per Emanuele Felice, tutto questo nazionalismo sovranista è liberismo, «liberismo autoritario», come specifica, qualsiasi cosa voglia dire. E aggiunge: «Come Putin e Orban».
Per argomentarlo, Felice fornisce via Twitter una bibliografia minima contenuta in un articolo il cui titolo, “Russia Inc.”, è di per sé sufficiente a smontare la tesi che vorrebbe dimostrare perché, appunto, Putin fa affari dal Cremlino, dal palazzo del potere centrale che è stato trasformato in una società per azioni («Inc.») di Stato, ovvero nella cosa più ideologicamente lontana dal liberismo che possa esistere e semmai nella più vicina alle attività criminali delle mafie che prosperano eliminando la concorrenza e abusando della posizione dominante illegalmente conquistata.
Di nuovo, quello di Russia Inc. è un sistema diametralmente opposto a quello di mercato, tra l’altro è la causa del 94esimo posto nell’indice di libertà economica assegnato a Mosca della Heritage Foundation, venti posizioni sotto l’Italia.
Agli atti non risulta che Salvini abbia mai posto a Putin la questione della concorrenza sleale o della posizione dominante delle attività degli oligarchi, né quella di rinunciare all’idea di promuovere la «democrazia illiberale» o di smetterla di diffondere il caos nel sistema globale occidentale che nella segreteria del Pd è probabile ora chiamino “neoliberista”, con brivido rivoluzionario intatto malgrado il cedimento strutturale del compagno Corbyn, del compagno Sanders e del compagno Melénchon.
Della Lega più che altro si ricordano le iniziative politiche per liberate la Russia dalle sanzioni economiche e, attraverso il sottosegretario Michele Geraci, anche per aderire ai progetti espansionistici della Cina popolare.
Ma facciamo finta che Emanuele Felice abbia ragione e ammettiamo che Salvini sia il nuovo Hayek, con il Pd ultimo baluardo della civiltà contro il neoliberismo. A questo punto, il responsabile economico del Pd dovrebbe spiegare per quale motivo, allora, il suo partito non stia conducendo una battaglia per cancellare le favolose misure economiche “neoliberiste” ideate e approvate da Salvini per mandare in pensione a sbafo (quota cento), per regalare soldi (reddito di cittadinanza) e per impedire la libera circolazione delle persone (decreti sicurezza).
A parte le interviste contro Fca, il solletico a Gualtieri e i tweet sul nulla, c’è da chiedersi che cosa stiano facendo il responsabile economico Felice, il ministro Provenzano e il vice segretario Orlando per abrogare davvero il salvinismo realizzato.
Niente, purtroppo.