“Della Calabria non importa niente a nessuno”. Ecco il lamento – giusto, per carità – di questi giorni proprio mentre i media, dagli editoriali dei giornaloni alle chiacchiere dei talk-show, sono saturi del vertiginoso triangolo Bonaccini-Sardine-Salvini. Un lamento che, probabilmente, dovrebbe essere esteso a tutto il Sud. La questione meridionale sembrava tornata in auge nel 2018 quando la valanga grillina aveva travolto destra e sinistra conquistando in Parlamento la gran parte dei seggi da Roma in giù. Il Pd aveva subito cominciato a stracciarsi le vesti, a fustigarsi, a strapparsi i capelli per il peccato di omissione di soccorso al Sud. E tutto era un lagnoso e stucchevole chiedere scusa. Da lì in tanti avrebbero potuto aspettarsi quantomeno una rivisitazione della presenza della sinistra nelle regioni meridionali, a partire dalla selezione delle classi dirigenti. Ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
In Calabria è stato scelto un imprenditore antimafia, bravo quanto vuoi, ma – mutatis mutandis – ricorda troppo la riedizione della scelta umbra: quando si è destinati a perdere, l’imprenditore almeno ti fa fare bella figura e ti fa perdere bene. La retorica del buonismo e della legalità è salva: che magra consolazione.
In Puglia, il candidato del Partito Democratico per le prossime elezioni regionali sarà nuovamente Michele Emiliano. Sul personaggio c’è poco da aggiungere: viene dalla magistratura (che per la sinistra rappresenta da decenni la riserva indiana di quel moralismo un tanto al chilo che garantisce la sempiterna retorica della legalità), fa l’anticapitalista (in ogni tipo di conflitto tra beni, per esempio lavoro e ambiente nel caso dell’ex Ilva, fa sempre fico attaccare imprese e investitori), fa il populista ambientalista e complottista (tutti ricordano l’oscena gestione del caso Xylella), si crede un rivoluzionario venezuelano (lo ricordiamo tutti quando faceva il matto contro le riforme liberali di Renzi).
A Napoli poi, dove il 23 febbraio si svolgeranno le suppletive per il Senato per coprire il seggio lasciato vacante dal senatore M5S Franco Ortolani, deceduto a novembre, il Pd pensa bene di fare accordi con il sindaco di Napoli Luigi de Magistris. “DeMa” è molto più che un sindaco in odore di grillismo: è l’eroe populista per eccellenza, il simbolo vivente del circo mediatico-giudiziario che diventa Stato, il messia dei processi surreali trasfigurato nel santo straccione del peronismo meridionale. Sotto la sua gestione la città di Napoli versa più che mai in condizioni disastrose, ma per eleggere un uomo del Pd da de Magistris bisogna passare. Su chi ricade la scelta? Ma è ovvio: un giornalista antimafia! Dopo decenni di religione della legalità non può essere diversamente. Se avete osannato i Santoro e i Saviano in questi anni sappiate che adesso questo è l’esito inevitabile. Sandro Ruotolo, il prescelto, è – sia chiaro – una ottima persona oltre che un professionista di valore. Quello che non funziona è, prima di tutto, il criterio di selezione che, nel Mezzogiorno, ormai, non riesce a prescindere dalla tenaglia mediatico-giudiziaria. E così la politica continua a coprire la sua debolezza – e l’incapacità di selezionare personale politico adeguato – lasciando campo libero a giornalisti e magistrati.
Può bastare tutto ciò? Ovviamente no. I movimenti antimafia, i grandi personaggi alla Don Ciotti, le giornate della memoria, le scuole della legalità: tutto è stato importante per correggere e fronteggiare la diffusione della mentalità criminale e mafiosa nel Sud. Ma la risposta della politica non può limitarsi a questo. E nemmeno può essere utile, per i progressisti, saldare la lotta contro la criminalità al buonismo e all’antifascismo. Il buon Ruotolo, che si sente «una vecchia sarda», ha già dichiarato: «insieme contro l’odio e il fascismo». E così si chiude il cerchio della retorica sinistrese. Ma siamo sicuri che tra i tanti problemi del Sud ci siano l’odio e il fascismo?
Parecchi dubbi hanno sul punto Paolo Macry e Biagio De Giovanni, i due intellettuali napoletani riformisti che dal loro blog “Ragione Politica” hanno lanciato nei giorni scorsi un appello su Facebook contro l’alleanza del Pd con de Magistris. Il patto è «una scelta infausta per almeno tre ragioni». La prima: «de Magistris è uno dei peggiori sindaci della storia repubblicana di Napoli, il responsabile del grave decadimento civile e materiale della città». La seconda: «de Magistris è il primo e il più tenace interprete della pericolosa deriva populista e demagogica che è poi dilagata nel Paese». La terza: «la scelta di Sandro Ruotolo, al di là dell’indiscussa qualità professionale, è l’espressione di quel Partito Mediatico-Giudiziario che ha promosso e sostenuto sin dagli esordi politici Luigi de Magistris e non può essere condivisa in alcun modo da chi, fuori e dentro la sinistra, si dichiara riformista e liberale». L’appello ha già raccolto un centinaio di firme autorevoli: da Umberto Ranieri a Claudio Velardi, da Vittorio Zambardino a Claudio Botti, da Bernardino Tuccillo a Riccardo Realfonzo.
Tutti concordi nel dire che un serio riformismo non può passare dalle retoriche dell’antimafia e dell’antifascismo. Come ha scritto tempo fa il Governatore Ignazio Visco, «tutte le fragilità strutturali del Paese sono riassunte e messe in risalto dalla divaricazione territoriale: nella capacità di crescita, nella produttività delle imprese, nella disponibilità di lavoro, nella qualità dei servizi pubblici». Dopo le crisi economiche che vanno dal 2007 al 2014, il Pil italiano è oggi più basso di quasi dieci punti, rispetto a quello del 2007, nel Sud. Contro i 4 punti nel Centro-Nord. Mentre il differenziale tra i tassi di occupazione è aumentato di quasi tre punti, trovandosi oggi sopra il 65% al Centro-Nord, e sotto il 45% al Sud. Come spiega lo storico Giuseppe Berta, in questi anni abbiamo assistito alla crescita di un “nuovo” Centro-Nord, profondamente riorganizzato attorno a Milano, capitale indiscussa di un “nuovo modello italiano”, da cui il Sud è – e si sente – “fuori”. Questa frustrazione molto probabilmente sta all’origine del voto del 2018, quando larghi strati dell’elettorato si sono rivolti ai Cinquestelle.
Purtuttavia, l’Italia resta la seconda manifattura d’Europa e una delle prime nel mondo, e il Sud contribuisce alla vitalità del settore manifatturiero per il 21% nell’alimentare, per il 10% nell’abbigliamento, per il 24% nell’automotive, per il 30% nell’aeronautico, per l’8,3% nel farmaceutico. Questa “tenuta” dell’industria del Sud tuttavia non riesce a diventare sviluppo diffuso. Nemmeno dopo i buoni risultati raggiunti dall’economia italiana negli anni dei governi Renzi e Gentiloni. Per quali motivi? Molto probabilmente, spiega Enrico Morando, ex viceministro dell’Economia e presidente di Libertà Eguale, «per via del malfunzionamento delle istituzioni politiche ed economiche del Sud». Queste infatti – secondo la teoria esposta da Acemoglu e Robinson in Perché le nazioni falliscono – possono essere “inclusive”, favorendo il coinvolgimento dei cittadini e quindi, con la crescita economica, anche lo sviluppo umano e civile; oppure “estrattive”, finalizzate cioè ad estrarre rendite per una minoranza di privilegiati. Secondo Morando, «malgrado gli sforzi compiuti per interventi orientati al superamento del divario, negli anni di governo del centro-sinistra non è stata avviata un’opera di riforma esplicitamente mirata a modificare in radice le istituzioni economiche e politiche fondamentali del Sud, facendole diventare, da estrattive come erano, inclusive».
Il problema è che con i governi gialloverdi e giallorossi la situazione è perfino precipitata. Viceversa, ci sarebbe un bell’elenco di cose da fare per far ripartire il Mezzogiorno. Alcune le indica Fabio Panetta, vicedirettore generale di Banca d’Italia: ridurre il pendolarismo sanitario tra Nord e Sud (ogni anno 200 mila pazienti si spostano dal Sud al Nord); ridurre i tempi della giustizia civile al Sud dove i processi durano 365 giorni di più; migliorare le competenze degli studenti meridionali.
A questi obiettivi, Enrico Morando ne aggiunge altri due. In primo luogo, «collocare la contrattazione tra lavoratori e datori di lavoro, più a ridosso dell’azienda e del distretto per remunerare meglio il lavoro, sviluppare l’impresa, favorire la formazione continua e la riqualificazione professionale dei lavoratori». E poi, continua Morando, «differenziare il prelievo fiscale sul reddito da lavoro femminile, rispetto a quello maschile, a parità di tutto il resto. Se si vuole passare dalle parole ai fatti, in tema di partecipazione delle donne alle forze di lavoro, l’Irpef differenziata per le donne che lavorano al Sud sarebbe un formidabile indicatore di svolta».
Qualità dei servizi sanitari, tempi della giustizia, istruzione dei giovani e occupazione delle donne. Lo sviluppo del Sud passa da qui. Altro che retoriche dell’antimafia. Come Milano svolge un ruolo di traino per il Nord, Napoli deve diventare la capitale della ripresa del Sud. Impossibile che questo accada con Ruotolo e De Magistris.
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