Si dice spesso che la politica non sia una scienza esatta – o anche il contrario, a seconda di quello che si vuol dimostrare: è il bello della politica – ma ci sono pur sempre alcune leggi fondamentali della fisica, della logica e della matematica che nemmeno il più sfrenato sostenitore dell’autonomia e del primato della politica può violare, se non vuole che il suo discorso sfoci nel puro nonsenso.
E poi c’è il Pd.
Un partito che in questo momento oscilla tra il 16 e il 19 per cento, il cui principale alleato di governo è dato al 16 (in picchiata) ed è comunque fermamente intenzionato a non coalizzarsi. Con gli altri potenziali alleati che se va bene arrivano al 5, peraltro in un solo caso (Italia viva), altrimenti se la battono tra lo zero e il due per cento. Con la coalizione avversaria praticamente già accreditata della maggioranza assoluta. E che cosa fa, un partito in una situazione simile? Dichiara di voler cambiare la legge elettorale in senso maggioritario, di comune accordo con il partito leader della suddetta coalizione avversaria. Dopo avere pure tagliato i parlamentari (con conseguente, ulteriore torsione maggioritaria del sistema) e dopo avere già straperso tutte le elezioni celebrate nel frattempo. In pratica, è come se uno che ha appena perso il lavoro, distrutto l’automobile, rotto la lavastoviglie e allagato il suo intero appartamento, chiedesse di rinegoziare il mutuo a un tasso più alto.
Il caso del Partito Democratico, a ben vedere, è però ancora più estremo. Perché qui stiamo parlando dello stesso partito che un mese fa (non un anno) dichiarava solennemente di avere accettato di votare il taglio dei parlamentari voluto dai cinquestelle – dopo avere detto per anni che era una minaccia alla democrazia, e avere votato contro non una ma ben tre volte – solo ed esclusivamente perché, attenzione, aveva ricevuto rassicurazioni sui fondamentali correttivi che sarebbero stati successivamente apportati, a cominciare dalla legge elettorale.
Prima di saltare a conclusioni affrettate, ripercorriamo insieme gli ultimi passi della strategia. Passo numero uno: il Pd fa un governo con i Cinque Stelle, pur pensandola all’opposto su quasi tutto, per evitare che Matteo Salvini prenda davvero i «pieni poteri». Passo numero due: il Pd vota il taglio dei parlamentari, che rende assai più realistica la minaccia dei pieni poteri, in cambio dell’assicurazione che si provvederà a stemperarne gli effetti maggioritari nella legge elettorale. Passo numero tre: il Pd propone una legge elettorale maggioritaria in accordo con Salvini.
Se unite i puntini e fate le somme, partendo dai rapporti di forza di cui sopra, l’esito è un sistema politico in cui Salvini e Meloni possono governare da soli, cambiare la Costituzione con il solo aiuto di Forza Italia, e se poco poco ci si mettono anche i cinquestelle – cioè esattamente quello che accadde con le nomine di tutte le cariche parlamentari all’indomani delle politiche del 2018 – è ragionevole immaginare, entro il 2022, lo stesso Salvini presidente della Repubblica, Roberto Calderoli a capo della Corte costituzionale, Luca Morisi direttore generale della Rai, Silvio Berlusconi presidente dell’Agcom e Davide Casaleggio garante per la Privacy.
Se la guardiamo dal punto di vista del Pd, è evidente che siamo di fronte a una strategia che sfida tutte le più elementari leggi della fisica, della logica e della matematica. Anche il solo insinuare che questa possa essere l’intenzione dei democratici somiglia più a una calunnia che a una ragionevole ipotesi. Il problema è che è esattamente quello che ha detto Nicola Zingaretti all’ultimo vertice dedicato all’argomento, tre giorni fa, e che tutti i giornali hanno riportato: no al proporzionale – unico punto su cui sembra deciso a dire di no ai grillini – e asse con la Lega pur di varare una legge maggioritaria. Un harakiri che qualunque persona di buon senso sarebbe portata a escludere subito come inverosimile, se non fosse più o meno quello che il Pd ha già fatto nel 2008, come avevamo già segnalato qui, ricordando i fasti della famosa «teoria del doppio colpo in canna» (in breve: provocare appositamente le elezioni nel momento più favorevole all’avversario e presentarsi al voto da soli, con il maggioritario, in modo da prosciugare tutti gli alleati e restare unico padrone dell’opposizione).
I fautori del piano sembrano però dare per scontato che Matteo Renzi si comporti in modo ancora più fesso di come si comportò Fausto Bertinotti tra fine 2007 e inizi del 2008, quando decise di dare man forte al progetto e fece da presidente della Camera un’intervista contro il governo Prodi a dir poco inusuale (lo definì un governo «morente»), nella convinzione che la «separazione consensuale» dal Pd avrebbe giovato anche alla sua parte (il risultato, come noto, fu che la sua parte si estinse).
Ma il difetto più grave di una simile strategia è che non sembra tenere il minimo conto di quanto costò all’Italia già il primo esperimento, che regalò al centrodestra una maggioranza talmente indistruttibile che nemmeno la scissione finiana, lo scandalo delle «cene eleganti» e la crisi finanziaria riuscirono a scalfirla, e ci volle il rischio della bancarotta per convincere Silvio Berlusconi a dimettersi. Perché, giova ripeterlo, se non si dimetteva lui, in Parlamento, la maggioranza per sfiduciarlo non c’era, e non ci fu mai, nemmeno con lo spread a 574. Non per niente, quella era la maggioranza capace di votare che Ruby Rubacuori era la nipote di Mubarak. O almeno, per essere precisi: che il presidente del Consiglio era sinceramente convinto che lo fosse, e solo per questa ragione, allo scopo di tutelare le relazioni italo-egiziane, chiese alla questura di Milano di rilasciarla (che fa anche più ridere).
Adesso andate a rileggere dove dicevo che finiremo con Calderoli presidente della Consulta e Morisi presidente della Rai, e vediamo se ridete ancora.
https://www.linkiesta.it/it/article/2019/11/25/maggioritario-riforma-elettorale-pd-5-stelle-salvini/44497/