La proposta dell’alleanza strategica con i Cinque Stelle non funziona, l’impresa di “civilizzare” il grillismo era troppo ardua, o peggio velleitaria. In ogni caso, il Pd di Zingaretti non ce la sta facendo: vuoi perché il M5s si è rivelato peggio di quel che si credeva, vuoi perché il Pd è incapace di gestire la situazione fatto sta che bisogna ripensare tutto daccapo. Per questo gli serve una nuova legittimazione.
Proprio l’uomo che viene criticato per una eccessiva prudenza sconfinante con la mancanza di polso vorrebbe dire basta. Mettendosi in gioco e puntando a succedere a se stesso. Disegnando un partito, sembra di leggere tra le righe, che recuperi qualcosa dell’originaria ambizione del Pd. Forse anche cambiando nome. Dario Nardella e prima di lui Roberto Morassut lo avevano detto, chiamiamoci semplicemente “Democratici” e togliamo quel “partito” che sa di caserma novecentesca. Che questo abbia un senso e un futuro è tutto da vedere.
Ci sono alternative all’attuale segretario? Lui e chi lavora con lui ritene di no. Il più importante di questi, Andrea Orlando, il vicesegretario a cui venivano addebitate cattive intenzioni, ha seccamente smentito al Foglio di volere fare le scarpe al segretario, consapevole che in ogni caso il suo destino appare indissolubilmente legato a quello di Zingaretti. Se quest’ultimo dovesse crollare sotto il peso di una sconfitta in Emilia-Romagna, difficilmente potrebbe restare in piedi il suo principale collaboratore. Viceversa, se il Pd uscisse vivo dal voto emiliano, Zingaretti sarebbe più forte.
La cosa più curiosa – addirittura un inedito – è che un segretario in difficoltà non ha una vera opposizione interna e dunque un candidato a lui alternativo. Pur essendo vasta l’area del “mormorio”, da Orfini al correntone di centro di Guerini, Zingaretti ha ancora con sé la maggioranza, nei gruppi dirigenti e soprattutto alla base. Il Pd, paradossalmente, non sembra più “scalabile”, forse – ma è una conclusione agghiacciante – perché non è più appetibile.
Ma non si può mai dire. Quando si aprono le gabbie, le belve escono. Giorgio Gori è un nome che ha una sua forza, per esempio. «Allo stato dei fatti, solo un pazzo punterebbe a guidare il Pd», taglia corto un dirigente di primo piano. Ma c’è tempo, comunque. Le ambizioni in questo Paese non mancano mai. E nemmeno i pazzi.
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