Nicola Zingaretti ha deciso di metterci la faccia. Almeno lui. È l’unico leader nazionale del “nuovo” centrosinistra che sta girando l’Umbria in lungo e in largo, spesso lontano dal clamore mediatico, per provare a ribaltare un pronostico che vede la destra a trazione leghista pronta a prendersi per la prima volta una delle storiche regioni rosse della dorsale appenninica. E così, tra un volantinaggio al mercato di Perugia, un comizio sul lungo lago al Trasimeno, una cena elettorale e una manifestazione di piazza, il segretario del Pd lancia sempre lo stesso messaggio: «Combattere fino alla fine».
Zingaretti sa bene che l’Umbria è il primo vero banco di prova del suo progetto, quello di un’alleanza strutturale tra Pd e Movimento 5 Stelle. Un risultato molto negativo potrebbe uccidere sul nascere la prospettiva rosso-gialla. Ed è per questo che ha deciso almeno di provarci, di sostenere il candidato “impostogli” dai grillini, quel Vincenzo Bianconi che, dice, «fino a tre settimane fa neppure conoscevo, ma che oggi rappresenta una grande speranza per l’Umbria». Diversamente da lui, a Perugia, Terni e dintorni di altri leader nazionali, a partire da Luigi Di Maio (non parliamo di Matteo Renzi) non si vede neanche l’ombra.
Se in Umbria dovesse arrivare una débacle (una sconfitta di misura, viste le condizioni di partenza, sarebbe già più accettabile) il numero uno dem finirà sul banco degli imputati. Attaccato non solo dai renziani, che non perdono un pretesto per sferrare fendenti nei confronti del partito in cui militavano fino a un mese fa, ma anche da pezzi dello stesso Pd che, in maniera sempre meno sfumata, si stanno schierando contro quella che ritengono una forma di “grillizzazione” del principale partito del centrosinistra italiano. In effetti, la possibilità di un’intesa stabile con i Cinque Stelle sta contribuendo a creare una nuova geografia nel Pd, ancora alle prese con i postumi della scissione di Italia Viva.
Il più esplicito nel puntare il dito contro «Zingaretti e Franceschini, i principali leader del Pd», è Matteo Orfini. Spinto da antiche ruggini mai sopite con il governatore della Regione Lazio, l’ex presidente del Pd parla apertamente di «linea sbagliatissima, priva di visione politica, che rischia di portarci ad una rovinosa sconfitta». L’obiettivo, neanche troppo nascosto, di Orfini è quello di catalizzare intorno alla sua figura tutti gli scontenti, per diventare il nuovo leader della minoranza interna e spingere per la convocazione, il prima possibile, di un nuovo congresso che dia o meno il via libera alla svolta prospettata da Zingaretti.
Sulla stessa linea di Orfini sono senz’altro i reduci della corrente turborenziana guidata da Roberto Giachetti, che si stanno riorganizzando intorno al cartello Energia Democratica, preso in consegna da Anna Ascani. Ma il vero punto di domanda riguarda il corpaccione degli ex renziani “moderati”, quelli confluiti da tempo nella corrente Base Riformista, la più numerosa tra i parlamentari dem, che fa capo a Lorenzo Guerini e Luca Lotti. Tra Guerini, Zingaretti e Franceschini è stato siglato alcune settimane fa un patto di ferro, che è alla base della pax interna seguita alla scissione di Renzi. Ma la maggioranza dei deputati e dei senatori che fanno parte di questa componente sono molto scettici riguardo l’intesa Pd-M5s e potrebbero riposizionarsi.
In particolare, un episodio passato un po’ sordina alcuni giorni fa, ha alzato il livello di guardia al Nazareno. Si tratta dell’elezione del segretario d’Aula del Pd, poco più che una formalità. Ebbene, il nome indicato da Graziano Delrio e Maurizio Martina, Andrea De Maria, frutto di un accordo tra le maggiori componenti del Pd, è stato eletto con soli 46 voti, molti meno del previsto. Al tempo stesso la candidata di bandiera proposta da Orfini, Giuditta Pini, ha incassato ben 26 voti, 21 in più dei cinque deputati che fanno capo all’ex commissario del Pd romano. Significa, detto in parole povere, che molti parlamentari considerati lottiani, hanno voluto mandare un messaggio preciso non solo a Zingaretti e Franceschini, ma anche allo stesso Guerini.
Come se non bastasse, anche all’interno della maggioranza zingarettiana, c’è chi storce il naso davanti alla prospettiva del matrimonio con i Cinque Stelle. Lia Quartapelle, plenipotenziaria della segreteria in materia di politica estera, ha scritto qualche giorno fa: «Ho votato Nicola Zingaretti come segretario perché proponeva che il Pd tornasse tra le persone, come dovrebbe fare una forza di sinistra di popolo. Questa esigenza è ancora più urgente ora che siamo al governo con i Cinque Stelle. Non c’è nessuna urgenza di immaginare alleanze al momento, ma di metterci al lavoro sul partito e sulla presenza nella società». Ai più attenti non sfuggirà che Lia Quartapelle è una delle più fidate collaboratrici di Paolo Gentiloni. E anche i muri sanno che una duratura intesa rosso-gialla non scalda il cuore dell’attuale commissario europeo. Per usare un eufemismo.
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