A meno di un diretto intervento dello spirito santo, è difficile immaginare che dal prossimo conclave del Partito democratico, fissato per lunedì, possano venire grandi novità. Tanto meno lo scatto, il rilancio, il cambio di passo che Nicola Zingaretti continua a invocare, in verità con voce sempre più flebile. Perlomeno rispetto a quando gridava che era ovvio che il Pd si sarebbe battuto per lo ius soli e contro i decreti sicurezza, dal palco dell’ultimo conclave, concistoro o comunque lo si voglia chiamare, quello di Bologna, che peraltro avrebbe dovuto tracciare la rotta niente di meno che per tutti «gli anni 20 del 2000». Gli anni venti del duemila sono cominciati da meno di due settimane, e già si ricomincia. Forse servirebbero meno conclavi e più coerenza. Ma questo non è un problema che possa essere addebitato al solo Zingaretti, anzi.
Il problema è strutturale, perché l’intero dibattito interno al Pd, per una sorta di principio di inerzia dei pregiudizi e delle posizioni precostituite, è divenuto al tempo stesso anacronistico e completamente autocontraddittorio. Imprigionato dentro riflessi condizionati acquisiti negli anni novanta, che non hanno più praticamente nessun collegamento con la realtà attuale.
Da un lato, infatti, c’è una maggioranza che si è presentata come quella della svolta a sinistra e che ha puntato tutto sull’accordo con il Movimento Cinque Stelle, finendo così – pur di compiacere i futuri e assai recalcitranti alleati – per sottoscrivere tutti i provvedimenti del precedente governo, persino quelli a firma Matteo Salvini, cioè più di destra. Dall’altro lato ci sono i riformisti, contrarissimi all’abbraccio con i populisti, ma al tempo stesso fermamente attestati sulla linea Minniti per quanto riguarda sicurezza, immigrazione e accordi con la Libia, cioè sulla linea della massima continuità possibile con il precedente governo populista, e con la componente populista del governo attuale.
Come se non bastasse, i primi, cioè quelli che hanno puntato tutto su una nuova coalizione di centrosinistra che comprenda i cinquestelle, hanno appena promosso una legge elettorale proporzionale, che non prevede coalizioni pre-elettorali; mentre i secondi, quelli cioè che la coalizione con i cinquestelle non la vorrebbero fare, protestano che ci vogliono il maggioritario e il bipolarismo (di coalizione), che renderebbero l’accordo praticamente indispensabile. E così arriviamo al singolarissimo paradosso di un leader del Pd che da un lato promuove una legge elettorale in cui ciascuno corre (e prende i voti) per sé, dall’altro fa praticamente campagna elettorale per un partito concorrente, definendo Giuseppe Conte un «punto di riferimento fortissimo di tutte le forze progressiste» e lasciando capire che fosse per lui lo ricandiderebbe pure a Palazzo Chigi.
Se vi è venuto il mal di testa e già non ne potete più, non mi sento di biasimarvi. Mi limito ad aggiungere una brevissima nota esplicativa: l’equivoco di fondo sta nell’idea che i cinquestelle siano di sinistra, anzi, che siano addirittura a sinistra del Pd, assurdità che fino a ieri si fondava sulla semplice rimozione di quanto i cinquestelle avevano fatto al governo con la Lega di Salvini. E siccome nessuno si è ricordato di avvertire Danilo Toninelli dei cambiamenti intervenuti negli ultimi mesi, lui giustamente continua a rivendicare in tv che la chiusura dei porti – cioè la più estrema, illegittima e illiberale tra tutte le scelte di Salvini – senza un certo Toninelli al ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture non si sarebbe potuta fare, e anzi su Twitter accusa esplicitamente Salvini di avere sempre cercato di prendersi i meriti del suo lavoro (suggerirei comunque ai colleghi cinquestelle di parlarci un minuto, prima del voto sul caso Gregoretti, per evitare guai peggiori).
Il problema del Pd non è dunque che è diviso, come si ripete sempre. Semmai che è confuso. Infatti continua a confondere la sinistra con populismo e giustizialismo, e il riformismo pure (solo che in quest’ultimo caso la negazione dei principi cardine dello Stato di diritto e delle minime garanzie costituzionali riguarda solo immigrati, rifugiati e chiunque scappi da torturatori e aguzzini da noi generosamente finanziati).
Si può fare meglio di così. Non dovrebbe essere nemmeno tanto difficile. Ma a giudicare dal dibattito di questi mesi, le ragioni di ottimismo non abbondano. Speriamo nello spirito santo.
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