Silvio Berlusconi ha ripetuto ieri che non teme defezioni dal partito e che Forza Italia «resta importante» in uno schieramento di centrodestra “unica alternativa alla sinistra”. E tuttavia è innegabile che l’area occupata dai forzisti – il vecchio Centro – fino a ieri giudicata inospitale per le ambizioni di qualunque leader alternativo al Cavaliere, sia diventata improvvisamente un luogo affollatissimo e pieno di rumore. In apparenza non ce ne sarebbero i motivi. Il potenziale elettorale del centrismo si è molto ridotto. Già nel 2018 era sotto il 20 per cento, sommando il 14% di FI al 2,5 di +Europa e all’1,3 di Noi per l’Italia. Oggi la sua portata è praticamente dimezzata, non arriva al 10%. E tuttavia in poco più di un mese al Centro sono spuntati come funghi non solo il nuovo partito di Matteo Renzi ma anche il possibile partito di Carlo Calenda e il quasi-partito di Giovanni Toti, tutti con la dichiarata ambizione di portare dalla loro parte il cosiddetto elettorato moderato, ma in realtà tutti interessati ad annettersi spezzoni parlamentari di Forza Italia per sostenere i giochi politici che verranno.
Sarà questo Parlamento a determinare non solo un gran numero di nomine in scadenza ma anche l’elezione del prossimo presidente della Repubblica e probabilmente una nuova legge elettorale. E i gruppi di FI sono i più permeabili a una campagna di annessione che rafforzi i numeri dei soggetti forti della legislatura. Dietro le nobili motivazioni dei nuovi alfieri neo-centristi c’è un calcolo aritmetico, la legge algebrica dei rapporti di forza a Palazzo Madama e a Montecitorio: sarebbe altrimenti incomprensibile perché ci si dia tanto da fare per contendersi un bacino elettorale così modesto, che da anni non dà segni di risveglio e che ha condannato ogni precedente tentativo di mobilitarlo fuori dagli schemi abituali. E infatti il saccheggio del fortino forzista è cominciato a cavallo della formazione del nuovo governo e ha accelerato i ritmi appena è risultato chiaro che le elezioni anticipate erano state scongiurate.
I numeri parlamentari di FI fanno gola anche alle forze governiste. È lì più che altrove che si potrebbero arruolare i futuri “responsabili” ed è quasi paradossale che sia il partito di Silvio Berlusconi, che inaugurò la definizione e ne fece largo uso per sostenersi, la vittima designata di questo gioco di rubabandiera con l’improvviso assalto su tutti i fronti: non bastavano Totiani e Renziani, non bastava l’Opa ostile della Lega e di FdI, ora ci si mette pure Zingaretti, adesso si fanno suadenti persino i grillini. Solo ieri: il passaggio della senatrice Donatella Conzatti a Italia Viva; l’appello Fb (“le nostre porte sono aperte”) di Matteo Salvini ai dirigenti “che si vergognano” del loro attuale partito; voci di incontri diretti tra il premier Giuseppe Conte ed esponenti di Forza Italia.
È uno spettacolo senza precedenti, perché in Italia i partiti sono morti di solito per schianto – la Dc, il Psi – oppure per autoconsunzione, come la vecchia Dc, schiacciata dal peso degli scandali ma soprattutto dall’improvvisa perdita di lucidità. Mai si era visto un partito importante al centro di dichiarati tentativi di spoliazione, come accade adesso, e per di più inerme mentre gli ex-alleati e pure gli avversari giocano e trattano con i suoi eletti. L’alibi collettivo è l’offerta di una nuova casa ai moderati, ma è abbastanza evidente che, una volta demolita la vecchia abitazione forzista, i suoi mobili serviranno ad arredare le ville del nuovo bipolarismo che guida la legislatura: l’asse sovranista da una parte e l’asse Pd-M5S dall’altra. Magari saranno messi in buona posizione, gli si dedicheranno complimenti. Ma resteranno elementi di decoro o poco più di architetture studiate da altri.
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