Il New Yorker si chiede se il coronavirus stia creando una società più progressista oppure una più distopica. Una prima risposta, intanto, potrebbe trovarla nella rappresentazione fantascientifica che si fa in questi giorni della politica italiana. Anziché stropicciarsi gli occhi per l’incredibile consenso mediatico che riscuote il presidente del Consiglio Giuseppe Conte nonostante la sua lampante inadeguatezza, addirittura osannato come una via di mezzo tra Camillo Benso conte di Cavour e Carlo Rosselli, assistiamo alla più stravagante campagna in difesa del premier-attaccato-da-nessuno orchestrata come un sol uomo dai comunisti del Manifesto, dai conservatori illuminati del Foglio e dai giustizialisti del Fatto, passando per tutti gli organi di informazione dell’establishment, e con l’eccezione dei tre piccoli e ininfluenti quotidiani salviniani, i quali a loro volta fino a pochi mesi fa si scioglievano per il medesimo Giuseppe Conte in quanto, allora, guidava il governo più di destra, più nazionalista e più sovranista dell’Occidente, un esecutivo capace di varare le riforme più reazionarie della storia repubblicana, dall’immigrazione alla giustizia, nessuna delle quali è stata non dico cancellata ma nemmeno ammorbidita dal successivo Conte di stampo cavourrian-comunista.
Difficile trovare qualcosa di più distopico di queste fantastiche avventure di Superman Conte e del suo fido Robin Casalino, descritti sia come esponenti della destra storica sia come liberalsocialisti sia come punti fortissimi di riferimento di tutte le forze progressiste.
Il virus purtroppo non sta creando una società più progressista, nonostante il gran parlare di soldi distribuiti con l’elicottero, di prestiti perenni a costo zero e senza condizionalità e di redditi di cittadinanza estesi universalmente, quasi avessimo vinto la lotteria invece che essere stati colpiti dalla più grave pandemia degli ultimi cento anni.
Al contrario stiamo accelerando la trasformazione digitale e stiamo indebolendo le ultime resistenze analogiche correndo diritti verso una società Smart Zoom Zoom adempiendo a una specie di rito purificatore compiuto dal virus che non sarebbe dispiaciuto a Marinetti.
Prima del corona sembrava essere cresciuta globalmente la consapevolezza dei pericoli che correvano la democrazia e la libertà individuale a causa della concentrazione di potere a favore di poche aziende private della Silicon Valley, dell’uso repressivo della rete nei regimi autoritari e della vulnerabilità delle società aperte davanti alle scorribande degli agenti del caos.
L’Europa si era mossa in difesa della privacy e del diritto d’autore e i governi occidentali, a eccezione di quelli guidati dal Conte di Volturara Appula, hanno cominciato a rendersi conto delle manipolazioni ai processi elettorali. Trump a parte, in America i politici più accorti hanno promesso di smontare i monopoli e di difendere l’innovazione tecnologica limitando le concentrazioni e liberando la concorrenza.
La pandemia ci ha fatto tornare alla casella iniziale, con Big Tech senza limiti e con parte delle opinioni pubbliche occidentali che invocano scenari di controllo di tipo asiatico. Kara Swisher del New York Times teme che prima del vaccino contro il virus arrivi «l’immunità per i colossi della Silicon Valley», i quali stanno diventando sempre più giganti in termini di capitalizzazione in borsa, di irresponsabilità delle loro azioni e di voracità nel sopprimere ogni forma di concorrenza: «Ora che dobbiamo poter contare sulle aziende in salute per far ripartire l’economia, scopriamo che le uniche ad aver raggiunto una vera immunità sono i giganti della tecnologia.
Il Covid-19 ha accelerato la loro ascesa e stretto la loro presa sulle nostre vite. Questo consolidamento di potere, assieme al controllo dei dati, dell’automazione, della robotica, dell’intelligenza artificiale, dei media, della pubblicità, del commercio e anche della tecnologia a guida autonoma, è scoraggiante». Prima della pandemia tutto questo era visibile, bisognerà vedere se lo sarà ancora quando ci saremo liberati del virus o se sarà, appunto, troppo tardi
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