Questo Russia gate alla polenta sembra la storia dei dieci piccoli indiani di Agatha Cristhie: ricordate? Ognuno dei dieci sospettati aveva un valido movente per piantare sulla vittima il coltello. Sì, perché a dar retta ai retroscenisti ci sarebbe il mondo dietro l’affaire Savoini e al Russia gate all’italiana: gli americani, i tedeschi, i francesi, i russi, anche gli italiani. Una fitta e complessa trama di azioni, omissioni, concessioni ordita tra servizi e politica per mettere in evidenza i rapporti opachi tra la Lega e la Russia e così assassinare la reputazione di Salvini, azzopparlo politicamente, marchiarlo come unfit to lead.
Insomma a dar retta a chi vede mani e manine all’opera in questa vicenda – e nel paese dei Borgia, di Machiavelli e dei segreti il complottismo è un genere che va sempre di moda – ognuno avrebbe avuto interesse a colpire Salvini. È una suggestione letteraria tra la spy story e il giallo politico, nulla di più (per ora), ma sul filo di questa suggestione è interessante notare che in effetti la linea di condotta della Lega è stata fino ad oggi così ondivaga, occasionale e schizofrenica da aver potuto davvero irritare tutti gli interlocutori con cui Salvini e il suo ristrettissimo inner circle hanno in questi anni incrociato la strada.
Una linea di condotta così occasionalista e contraddittoria da apparire più confusionaria che spregiudicata, più furbesca che strategica, tanto però da scontentare, deludere e infine di fatto tradire tutti. Non c’è una mossa di quelle fatte dalla Lega di Salvini sullo scacchiere politico europeo e internazionale che non si sia esposta a rischi enormi del colpo di ritorno, che abbia avuto una regia, una prospettiva di media-lunga durata, che sia stata preparata e calibrata sui reali rapporti di forza in campo, di cui siano state previste le conseguenze e le variabili rispetto a cui immaginare repliche e risposte.
Al contrario Salvini ha praticato fino ad oggi – a prescindere da cosa si pensi del merito delle sue idee – una politica ormonale, muscolare, umorale. A partire dal tentativo di organizzare quella cosa che doveva essere l’internazionale sovranista e l’alleanza populista intraeuropea. Una cosa buona per qualche titolo sui giornali ma che nella sostanza era fallimentare sin dalle sue premesse. Sulla questione migratoria per dire – che è poi il core business dei movimenti populisti di destra europei – i governi sovranisti come l’Austria o l’Ungheria si sono sempre rifiutati di prendere anche solo in esame l’ipotesi di prendere in carico i richiedenti asilo in Italia, contestando persino la via di un meccanismo di quote di redistribuzione dei rifugiati. Sono poi stati loro, i sovranisti di Visegrad, a far la guardia al trattato di Dublino senza curarsi minimamente del fatto che tra i paesi di primo sbarco nel sud Europa c’è l’Italia.
Bell’affare verrebbe da dire. A cui si aggiunge un’altra dirimente questione: ossia che i fidi alleati sovranisti in Europa sono dei falchi veri: vogliono rigore nei conti pubblici, pareggio di bilancio e taglio del debito pubblico: misure che i sovranisti e i populisti di casa nostra hanno sempre additato come le cause dei nostri problemi. Tuttavia è in coro con questi “amici” che Salvini ha fatto la voce grossa in Europa contro l’asse franco tedesco. Col risultato di rinsaldarlo e renderlo ancora più stretto, come hanno dimostrato le nomine della Presidenza della Commissione UE, andata alla Ministra della Difesa tedesca Ursula von der Leyen e della presidenza della Bce alla francese andata a Christine Lagarde.
Perché i poteri reali che vengono sfidati e minacciati agiscono e reagiscono. Ma sembra ci sia un metodo in questo non aver metodo: in Libia – per dirne un’altra, che non riguarda solo Salvini ma tutto il governo – nella Libia dove si sta combattendo una guerra civile il terzierismo dell’esecutivo gialloverde ha una volta di più scontentato tutti: ha insospettito Serraj, irritato Haftar, messo in guardia Trump, mandato un segnale di debolezza e irresolutezza a Macron e lasciato perplesso Putin. Mostrando un dilettantismo imbarazzante e dando l’impressione che la Libia entri nei radar degli attuali interessi italiani solo come rampa della minaccia migratoria.
E ancora: sei uno dei primi partner commerciali dell’Iran e ti trovi in mezzo alla crisi Usa-Teheran senza esprimere una posizione magari di intelligente compromesso, apparendo agli occhi dell’alleato atlantico e a quello dell’interlocutore iraniano come un’entità anfibia, anodina, afona. A proposito di Usa e di Trump: c’è stato in questi mesi un gran lavoro leghista per accreditarsi alla Casa Bianca. Lavoro culminato nella visita di Salvini a Washinghton. E ieri Luttwak assicurava in un’intervista a Libero che Salvini, malgrado Savoini, è un leader affidabile per gli Usa. Sarà: però Trump non ha guardato con favore a un governo – di cui Salvini è componente fondamentale – che sigla accordi con la Cina su via della seta e tecnologie. E di converso – visto da Mosca – Putin non ha visto con favore la missione negli Stati Uniti di Salvini che per riequilibrare i piatti della bilancia incontrava il segretario di Stato Pompeo e il vicepresidente Pence, promettendo la sua fedeltà atlantista allineandosi alla Casa Bianca praticamente su tutto: dal Venezuela all’Iran, dalla Cina alle sanzioni contro la stessa Russia.
La posizione dell’Italia si dirà è sempre però stata mediana per posizione geografica e vocazione storica. Vero, ma è difficile tenersi in equilibrio improvvisando, senza un governo che mostri un’unità di intenti, senza un personale adeguato, senza una politica estera definita. Così che il rischio è quello di apparire ambigui e solo opportunisti. E così da aspirante mediatore tra Washinghton e Mosca Salvini rischia oggi di apparire inaffidabile a entrambi gli attori che nella sua idea dovevano essere i garanti della sua azione di rottura del vecchio ordine europeo. A sua volta ostile nei suoi confronti.
Da qui i sospetti ventilati dai dietrologi per cui oggi la Lega sarebbe stata scaricata dagli Usa come inaffidabile, compromessa dalla Russia per i suoi sforzi di accreditarsi presso Washnigton, entrata nel mirino dei poteri europei per aver sfidato e minacciato la stabilità continentale. I dieci piccoli indiani – tornando alla suggestione letteraria – avrebbero tutti un movente per ritenere che l’affaire Savoini possa essere un salutare avvertimento a Salvini. Si dice che la Lega sia un partito leninista. Ma non è vero: Lenin diceva che la rivoluzione è una professione, non un attività da dilettanti. Il che significa scegliersi amici e nemici e, soprattutto, preparare il terreno, qualsiasi cosa tu voglia fare. Ignorarlo e sbatterci la faccia è quello che capita quando non hai letto Carl Schmitt – la logica amico nemico – o non c’è nessuno intorno a te che lo spiega. Magari insieme all’egemonia di Gramsci.
https://www.linkiesta.it/it/article/2019/07/16/italia-politica-estera-trump-libia-cina-russia/42886/