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Il taglio dei parlamentari fa felici gli dei del populismo. Ma renderà la politica peggiore

Chissà come apparirà la Montecitorio del futuro con 230 scranni vuoti, amputata di un terzo del suo corpaccione, senza i peones, i miracolati dell’elezione a sorpresa, le personalità “portate a Roma” per gratificare specifici bacini elettorali. Chissà se Camera e Senato ci appariranno più efficienti e attive quando a popolarle saranno solo i fedelissimi di partito e i cerchi magici dei capi, finalmente padroni dei dibattiti in Commissione e in Aula, senza la gran rottura di scatole dei voti disobbedienti degli indipendenti per carattere, di quelli che hanno una reputazione da difendere, ma anche dei molti seguaci della dottrina Razzi – “Fatti li cazzi tua” – messi in lista come tappabuchi e promossi per un’imprevedibile botta di fortuna.

La riforma costituzionale sul taglio dei parlamentari, che oggi approda alla Camera per l’ultima tappa, ci promette un Parlamento ridotto numericamente di un terzo – da 630 a 400 deputati, da 315 a 200 senatori – ma politicamente rivoltato come un calzino. Il primo effetto di una selezione così dura sarà la fidelizzazione assoluta degli eletti alle segreterie e la sparizione dal terreno di gioco dei politici non-professionisti oppure culturalmente fuori dal coro, che sono poi quelli che hanno fatto la storia di molti strappi parlamentari sgraditi ai partiti.

E tuttavia il popolo applaudirà la cosa come la vittoria finale contro il Palazzo, la resa dei conti assoluta, il Vae Victis definitivo, tanto che, giunti alla quarta e definitiva votazione, nessuno schieramento – salvo sorprese in extremis – oserà più mettersi contro la proposta che potrebbe passare con la straordinaria unanimità di sovranisti, democratici, populisti, forzisti e ogni altra frangia dell’emiciclo.

Decimare gli eletti è l’ultimo e più significativo atto della spoliazione della Casta cominciata più o meno nel 2010, sull’onda dell’indignazione popolare per gli scandali delle Regioni e della martellante propaganda del Movimento Cinque Stelle e dei media affratellati. I primi a cadere, nel 2011, furono i vitalizi parlamentari: aboliti e sostituiti con un tradizionale assegno pensionistico, correlato ai contributi versati e riscuotibile solo a 65 anni. Poi toccò alle indennità (tagliate), alle diarie (ridotte in caso di assenza) e al voto con impronta digitale per certificare le presenze senza possibilità di imbroglio. I vitalizi regionali caddero sotto la scure alla fine del 2012. L’anno dopo fu tolto di mezzo per decreto il finanziamento pubblico ai partiti, anche nella forma surrogata del rimborso per le spese elettorali. E di conserva sono spariti nel tempo benefit di ogni tipo, dai biglietti aerei alle agevolazioni sui contratti telefonici fino alla minutaglia delle più modeste spese di rappresentanza locali: il sindaco di Roma Ignazio Marino perse il posto per qualche pranzo scarsamente documentato e una colazione da 8 euro e 50 a Cracovia, offerta a una vittima dell’Olocausto durante una gita studentesca.

Dopo una cura dimagrante così, la politica dovrebbe risultare finalmente riabilitata, anche in considerazione del fatto che ha agito in prima persona per riformarsi, tagliare i costi, cancellare i privilegi sedimentati in settant’anni di vita repubblicana. Non è successo. E probabilmente non succederà nemmeno dopo l’estremo sacrificio di un terzo delle poltrone che si compirà questa settimana. Il dio del populismo è capriccioso e poco incline al perdono. Non c’è Vitello d’Oro che lo contenti, anzi. Già si parla di offrirgli in dono l’introduzione del vincolo di mandato e della sfiducia costruttiva.

Già il Blog delle Stelle incita a cancellare del tutto lo stipendio ai parlamentari più assenteisti. E nessuno che sollevi un dubbio semplice: forse la credibilità dei partiti, e quindi del nostro sistema democratico, non dipende dai costi ma dalle persone e dalle idee.

https://www.linkiesta.it/it/article/2019/10/07/riforma-taglio-parlamentari-5-stelle-casta/43831/

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