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Il trasformismo tra popolo e Parlamento

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Dai tempi dello Statuto albertino il trasformismo è stato croce e delizia delle nostre istituzioni. Croce, perché si è dato spesso il caso di parlamentari che saltano di qua e di là come canguri o, peggio, come pulci. Delizia, perché grazie a questo espediente è stato possibile far nascere governi o mantenere al potere ministeri dalle maggioranze ballerine. Cavour s’inventò il Connubio con Rattazzi perché mal sopportava la petulante invadenza di Vittorio Emanuele II. Prese così le distanze dal monarca per avvicinarsi al Parlamento. E il governo del Re diventò il governo del primo ministro. Molti anni dopo Agostino Depretis concesse il bis con il trasformismo. E il vecchio capo della Destra, Marco Minghetti, vi si piegò.

Depretis sapeva come trattare gli uomini. Nel discorso pronunciato al banchetto offertogli dai suoi elettori di Stradella l’8 ottobre 1882, non a caso pose l’accento su queste parole: «Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se qualcheduno vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?». Aveva l’astuzia di un Andreotti. Soleva, ricorda Ugo Ojetti nei suoi Taccuni, «presentarsi alla Camera strascicando per la gotta le gambe e riuscendo a stento a parlare con un filo di voce, quando la situazione parlamentare era grave». E come lesinare la fiducia a un moribondo, sia pure dotato di una precaria salute di ferro? Perfino D’Annunzio si abbandonò al trasformismo quando, ai tempi dell’ostruzionismo parlamentare di fine Ottocento sui decreti Pelloux, passò da Destra a Sinistra con questi memorabili detti: «Vado verso la vita!».

Con l’avvento della Repubblica il trasformismo tende a scomparire. I partiti non erano liquidi come oggi ma chiese consacrate. E i fedeli pregavano e lavoravano in entrambi i rami del Parlamento senza tante storie. Perciò fecero epoca il passaggio di Mario Melloni – il celebre Fortebraccio – dalla Dc al Pci e la diserzione dal Pci dei deputati Aldo Cucchi e Valdo Magnani per la soggezione del partito all’Unione sovietica.

E per tanto ardire Palmiro Togliatti se ne sbarazzò squalificandoli pidocchi annidati nella criniera di un nobile destriero. Nella cosiddetta Secondo Repubblica, inaugurata dal governo Berlusconi nel 1994, i cambi di casacca si contano a centinaia. E un po’ tutti ne sono beneficiari. La legge elettorale sponsorizzata da Sergio Mattarella nel 1993 produce il bipolarismo. E lo spostamento di anche pochi seggi può determinare la nascita o la morte dei governi. Adesso abbiamo un governo dove il Pd ha sostituito in corsa la Lega e un presidente del Consiglio che – come un tempo Badoglio, De Gasperi e Andreotti – è passato da una maggioranza a un’altra senza battere ciglio.

Anche in questi giorni il trasformismo è di stringente attualità. Matteo Renzi imbarca sulla sua zattera quanti più parlamentari è possibile, meglio se strappati al centrodestra, perché per far crescere la sua creatura vuole che il governo duri ma vivano di stenti alleati e avversari. All’insegna del “mors tua, vita mea”. E l’altro Matteo, il Capitano leghista, ostentatamente lascia spalancate le porte del partito con la speranza di attrarre i pentastellati delusi, di far cadere il governo e di andare alle elezioni anticipate. Insomma, come gli esami di Eduardo, le manovre di Palazzo non finiscono mai.

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