Scrive l’Atlantic che il coronavirus è la terza grande crisi globale post fine della Guerra Fredda, dopo gli attacchi islamisti dell’11 settembre 2001 e la crisi finanziaria del 2008. Non sappiamo ancora come andrà a finire, ma c’è il rischio che l’epidemia possa avere un impatto maggiore sulle società occidentali e non solo, rispetto ai due casi precedenti, anche perché al potere di qua e di là dell’Atlantico c’è una classe dirigente inadeguata e incompetente.
Per dire, l’altro ieri Donald Trump ha spiegato in televisione che in realtà basterebbe un semplice vaccino anti influenza per fermare il «corona flu», la febbre corona, come l’ha chiamata lui. Mentre da noi si assiste al surreale balletto apri-chiudi e chiudi-apri dei Chigi Boys associati al professore Brusaferro. Ma se gli avversari di Trump, in America, si stanno riorganizzando intorno a persone serie, l’opposizione italiana è ancora meno affidabile del governo e altrettanto populista, con la Meloni che alterna videoselfie in posa bipartisan a interviste in cui dà di «criminale» al premier, mentre la Lega al governo nella regione più colpita dal virus non solo non sa indossare la mascherina, ma come ha raccontato Irene Dominioni ha combinato anche un bel pasticcio con un protocollo sanitario diverso rispetto a quello indicato dal ministero, probabilmente per marcare ideologicamente l’autonomia da Roma. Ed è solo un mediocre contrappasso per la giunta del Capitano-dei-porti-chiusi essere costretta ad accettare, adesso e a casa propria, l’aiuto dei medici delle ong.
La situazione non è facile, ci mancherebbe, ma l’emergenza ha dimostrato in tutta la sua pericolosità i limiti del populismo come metodo di governo. La competenza serve. Le istituzioni servono. La comunità globale esiste. Serve una risposta illuminata, anche se impopolare. Il sistema va fatto rifunzionare, conclude l’Atlantic.
Qualche segnale di serietà e di competenza è arrivato dal presidente Sergio Mattarella e dal ministro Roberto Gualtieri, gli adulti nelle stanze del potere popolato da adolescenti e dropout. Il loro passo felpato sembra aver immunizzato il governo da ulteriori sbandamenti, almeno per il momento. E così è arrivato, ieri, il primo intervento urgente del governo da sette miliardi e mezzo di euro, quasi tutti a debito, da spendere fin da mercoledì prossimo, previa approvazione del Parlamento, destinati a rafforzare le strutture sanitarie e ad assicurare che nessuno perda il lavoro per il coronavirus.
Il punto è che sappiamo tutti che il decreto non basterà e lo sa per primo anche il ministro Gualtieri che ieri ha lasciato intendere come i suoi tecnici stiano già studiando un intervento molto più ampio nel caso l’epidemia si diffondesse geograficamente e si prolungasse nel tempo.
Milano è irriconoscibile, strade e negozi e alberghi vuoti, personale lasciato a casa, esercizi chiusi, cassa integrazione, settore terziario a terra, a cominciare dagli investimenti pubblicitari e marketing perché al momento un mercato del consumo, anche culturale, non c’è. Milano, la Lombardia e il Veneto non sono soltanto un problema del nord produttivo, peraltro non indifferente, ma un problema nazionale per il peso del prodotto interno lordo, per la rete di indotto e per le rimesse inviate al sud.
Serve dunque un Piano straordinario per l’Italia coraggioso e aggressivo, una chiamata all’azione nazionale, una Nazionale, che aiuti le aziende e soprattutto le famiglie e gli individui, con una sospensione del pagamento delle tasse, degli acconti Iva e delle rate dei mutui, subito, dalla settimana prossima, prima ancora dei grandi investimenti per far ripartire l’economia e nella speranza che si possa tornare alla normalità il più presto possibile. I soldi ovviamente non ci sono, si dovrà ancora ricorrere al debito, certo senza scialacquare denaro. L’Europa non potrà fare altro che dirci di sì, non solo perché è probabile che lo stesso strumento servirà anche ad altri paesi, ma perché se dovesse opporsi a un’operazione una tantum per evitare la catastrofe economica di uno o più paesi membri allora a che cosa serve l’Europa?
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