A Verona il congresso in difesa della famiglia tradizionale si sente sotto attacco. La sinistra è fuori di testa – lamentano – si è messa a scandagliare le vite private di alcuni partecipanti, come quelle di Salvini, Meloni, o dell’organizzatore del “Family Day” Massimo Gandolfini, per delegittimarci.
Ma come? Si chiedono, gli omosessuali possono rivendicare la loro sessualità al “Gay Pride”, chiedere di mettere su famiglia e figli, ricorrendo anche all’utero in affitto, e noi qui a Verona per “la sinistra progressista” non dovremmo neanche fiatare? Ma le cose non stanno così. I gay possono rivendicare la loro inclinazione sessuale, o manifestare per avere pari diritti, (indipendentemente da come la si pensi sull’argomento) dopo secoli di persecuzione: può non piacere, ma è comprensibile. Altra cosa invece è imporre la propria visione totalitaria della famiglia su tutti quanti, bollando quelle altrui come sbagliate, immorali, da vietare. A Verona, i “custodi della tradizione” “i senza peccato” hanno scagliato pietre su tutti quelli che non la pensano come loro, insultando e provocando.
Se gli omosessuali chiedono a gran voce pari diritti per tutti, matrimoni e figli senza condizioni, occorre ascoltarli e dialogare anche se la si pensa in modo diverso. Si può anche non capire (e chiedere) perché certe unioni omosessuali, sempre più numerose, sfocino nella ricerca di un terzo elemento che le accomuni: quel figlio in cui entrambi credono si possano ritrovare. Ma pontificare su due uomini, che tentino di avere un figlio, accusandoli di volerlo fare solo per imitare il legame eterosessuale, senza però riuscirci completamente, non è più dialogare, è considerare la loro richiesta un’anomalia inaccettabile.
E che dire di Gandolfini, del leader Pro Life, che ha proclamato, che l’aborto è omicidio di un bambino in utero, e la legge 194 “è stata applicata soltanto negli articoli che permettono la soppressione di una vita e non in quelli aiutano la maternità?” Invece di questi inutili proclami, cosa si aspetta ad attivare i consultori in modo serio, per porre fine alle cause che possono indurre una donna a interrompere la gravidanza?
E poi la cosiddetta “cultura abortista” finisce quando la famiglia si allarga fino ad abbracciare tutti i bambini del mondo. Quando uno di essi muore o soffre, a morire dovrebbe essere un nostro figlio. La vita è sacra non perché lo decreta il Parlamento, la chiesa o chissà chi, ma perché ciascuno in cuor suo lo riconosce, dimostrandolo. La 194 è stata forse la conquista più importante degli ultimi anni, ma non dovrebbe esserlo solo per le donne, ma per tutti quanti. Invece a Verona si è passato il tempo ad accusare le “femministe,” i “progressisti,” perché intendono l’aborto come l’esercizio di un diritto, una forma di liberazione della donna, e non per quello che è: una tragedia irrimediabile.
Certo negli anni ’70 per le ragazze abortire era, tentava di essere, un gesto di libertà, di ribellione perlomeno, alla persecuzione del maschilismo, del familismo, del perbenismo. Fino ad allora l’aborto aveva prosperato nella vergogna; si abortiva clandestinamente non solo per timore delle punizioni della magistratura, ma anche nel timore del giudizio della società. Infine, con la legge 194, la guerra di liberazione era vinta e si poteva abortire alla luce del sole. Non che le donne non sentissero il dolore di un simile atto, al contrario esprimevano solo la volontà di non subire più scelte, ne condizionamenti, dopo che la sessualità femminile era stata ancorata, per lungo tempo, alla funzione riproduttiva. Con lo slogan “L’utero è mio me lo gestisco io” le donne non si stavano uccidendo come madri, ma cercavano solo di affermare la loro libertà e indipendenza. Quella che al Congresso delle Famiglie, evidentemente, si vuole limitare.
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