I leader politici hanno milioni di follower sui social; d’altro canto, però, oggi più che mai leading is following, perché chi è alla guida di un paese è costretto a inseguire con affanno le corse zigzaganti dell’opinione pubblica, interrogando i sondaggi come libri augurali.
«Ciò dimostra che in questo mondo di apparenze intercambiabili il rapporto inseguitore-inseguito continua ad essere l’unica realtà a cui ci possiamo attenere», per usare le parole di un racconto di Italo Calvino su un metafisico ingorgo stradale, L’inseguimento.
Se grattiamo via l’intonacatura moderna di parole come leader e follower, ecco che vediamo ricomparire i poco avveniristici e molto paleolitici rituali della caccia. Troviamo lì, per la prima volta, l’inseguitore e l’inseguito, il grande animale rincorso e circondato, infine abbattuto e divorato dai cacciatori.
Elias Canetti in Massa e potere descrisse la «muta di caccia» come una delle espressioni primordiali dei rapporti di dominio: «La muta vuole una preda: vuole il suo sangue e la sua morte. Deve inseguirla veloce e senza farsi distrarre, con astuzia e tenacia, per afferrarla. La muta si incoraggia abbaiando tutta insieme. […] Ciò che finalmente è stato raggiunto e abbattuto viene mangiato da tutti».
Se vi suona sinistramente familiare, è perché molte cose nelle nostre democrazie si svolgono ancora sullo stesso canovaccio. Il “tempo reale” delle azioni e delle reazioni, delle decisioni e delle rilevazioni, insomma il ricatto permanente in cui vive oggi l’uomo politico, tallonato da un’opinione pubblica famelica e impaziente, non fa che rendere più concitato e crudele l’intero processo.
Con un po’ di fantasia antropologica, provate a pensare ai nostri leader come ad altrettanti grossi animali che, nel timore di finire divorati da un elettorato abbaiante, trovano come unica strategia di sopravvivenza quella di mettersi a capo, a loro volta, di una muta di caccia. Da prede designate, si trasformano allora in cacciatori – dirigendo la loro muta di volta in volta contro le élite, la finanza globale, Soros, la sinistra liberal, l’invasione islamica, i neri, i gialli, i rom, il deep state, Bill Gates, la casta.
La strategia funziona per un certo tempo, ma è per sua natura instabile: appena qualcosa s’inceppa, il rapporto tra inseguitori e inseguiti si capovolge di nuovo. Come Atteone, il leader è trasformato in cervo e finisce divorato dai suoi cani-follower.
Può essere un turno elettorale, un referendum, uno scandalo, un’inchiesta giudiziaria: il cacciatore ridiventa preda, pronto a essere rimpiazzato da chi si è messo a capo di una nuova muta. Il duello fra Trump e Twitter, in questa luce antropologica, prende valore epocale ed esemplare: il corno di caccia attraverso cui Trump aveva per anni aizzato quotidianamente masse di follower ringhianti contro prede reali o immaginarie si ritorce a sorpresa contro di lui.
Anche in questo caso, la fantascienza aveva immaginato qualcosa di simile. In un racconto del 1955 intitolato Biglietto per Tranai, il grande Robert Sheckley raccontò la storia di un uomo che sbarca su un pianeta lontano, dove gli offrono di diventare presidente supremo.
Quando scioglie la riserva e accetta, ecco che la testa del presidente in carica è dilaniata dall’esplosione di uno strano medaglione che porta al collo. È il Presidential Seal: un congegno dinamitardo collegato a un calcolatore che misura il livello dello scontento popolare, come i nostri istituti demoscopici. Oltre una certa soglia, il congegno esplode automaticamente. «È questione di pesi e contrappesi», gli spiegano: «Proprio come il popolo è nelle nostre mani, noi siamo nelle mani del popolo». Leading is following.
La giostra dei social network sta trasformando i cacciatori in prede