Alfonso Bonafede si è salvato ma i giustizialisti hanno subito un colpo. Non è passata la mozione Bonino-Richetti ma nemmeno quella della destra. Inutile girarci intorno: il Guardasigilli resta a via Arenula, molto indebolito e, diciamoci la verità, quando è apparso nero su bianco che sfiduciare lui avrebbe significato sfiduciare Conte (ieri in aula al Senato era a un metro di distanza dal suo ministro) nessuno ha dubitato che Fofò Dj l’avrebbe sfangata. E così è stato.
Però ci sono almeno un paio di fatti politici da esaminare. Primo, Bonafede è stato costretto ad annunciare «di persona personalmente», direbbe il personaggio di Camilleri, l’istituzione di una commissione ministeriale che vigilerà sui contenuti delle riforme dei codici monitorando quanto avverrà riguardo la prescrizione, gran cavallo di battaglia del ministro, che però è un cavallo azzoppato.
Una commissione è meglio di niente. È Renzi che l’ha imposta. Meglio ancora se a presiederla andrà un garantista come Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali: che la cultura garantista di uno dei principali avvocati italiani entri nel ministero di via Arenula guidato da un grillino è una novità assoluta. Chissà che dirà Marco Travaglio, per dire, di questo cedimento dei pentastellati puri e duri, nel dibattito di ieri totalmente irrilevanti, afoni, inutili (eppure era il loro ministro).
Il secondo fatto politico venuto alla luce ieri è l’adesione di alcuni forzisti alla mozione di sfiducia presentata da Emma Bonino e Matteo Richetti, la mozione garantista e dunque di segno opposto a quella di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia (ufficiale).
Il terreno della giustizia e dei diritti è uno dei principali temi divisivi nel partito di Berlusconi che d’altronde da sempre utilizza due pesi e due misure a seconda della convenienze. Ebbene, ieri Andrea Cangini, vicino a Mara Carfagna, ha spiegato di aver sostenuto la mozione Bonino in quanto «prescinde completamente dalla vicenda Di Matteo e inchioda Bonafede alle sue responsabilità di ministro».
Cosucce tipo “l’abolizione della prescrizione, la Spazzacorrotti, la riforma delle intercettazioni, l’incapacità di amministrare le carceri durante il Coronavirus”. Le accuse di Di Matteo non c’entrano nulla. Quella è roba che con la cultura garantista fa a cazzotti. Non solo, ma anche Quagliariello, Romani e Berutti non hanno votato la mozione della destra. Piccole crepe.
E Renzi? Riconosciuto che buttare giù Bonafede avrebbe implicato la caduta del governo, il leader di Italia Viva si è ormai convinto che una crisi non potrebbe comunque aprire uno scenario diverso e di fatto ha certificato l’impossibilità di costruire, per adesso, nuove ipotesi di governo.
E non solo perché il Paese è entrato in una nuova, delicatissima, fase ma perché sia il Partito democratico che la destra, con motivazioni varie, sono chiaramente indisponibili a nuovi scenari: il Nazareno perché si è legato strategicamente all’asse con il Movimento Cinque Stelle (via Conte) e poi perché a sentir parlare di unità nazionale il duo Salvini&Meloni fugge a gambe levate.
Se questo è il contesto, Renzi punta a rafforzare il peso del suo partito, obiettivo che pare stia raggiungendo su diversi terreni (almeno pare che il premier abbia rassicurato la Boschi in questo senso). Chi fa le spese di questo riequilibrio dei pesi in seno al governo è il M5S, i cui contenuti sono completamente spariti dall’agenda e i cui ministri sono, chi più chi meno, in perenne affanno. Uno sopra tutti gli altri. Si chiama Bonafede Alfonso.
La mozione di sfiducia non è passata, ma Bonafede è diventato un cavallo zoppo