La campagna elettorale del Movimento Cinque stelle in l’Emilia Romagna dice molto anche adesso, prima che arrivino i risultati, e racconta di una pax emiliana che forse è solo scelta locale, ma più credibilmente è il laboratorio di una futura posizione nazionale. Il dato più visibile è la palese rinuncia del M5s a competere sui territori: nel 2016 sembravano proprio le sfide locali, con la vittoria a Roma e Torino, il terreno d’azione più promettente per il movimento grillino; oggi la loro macchina di propaganda social ignora la battaglia come se non la riguardasse. Il candidato Simone Benini, informatico cinquantenne di Cesenatico, è stato lasciato al suo destino, in totale autogestione. Le scarse interazioni della sua pagina Facebook dimostrano una crudele disattenzione degli specialisti grillini per la diffusione di post, iniziative, proposte. Luigi Di Maio ha limitato il suo giro in zona al minimo sindacale: due manifestazioni, a Cesenatico e a Scandiano. Gli altri big rimangono distanti. E la campagna, vista dall’osservatorio della Rete, assomiglia moltissimo agli esordi rudimentali dei meet-up, con gli amici mobilitati per dare una mano che si fotografano l’un l’altro davanti ai banchetti, scambiandosi i “mi piace”. Nulla a che vedere con l’approccio pervasivo e professionalizzato a cui siamo abituati.
Sembra un ritorno alle origini anche l’hastag scelto per la campagna, #LeSentinelleUtili, evidente rivendicazione del ruolo di “controllore” che in politica è riservato alle opposizioni, ma in questo caso la sensazione nostalgica potrebbe rivelarsi fuorviante. Stare a guardia di un potere esercitato da altri è una scelta che lascia aperte due diverse opportunità: si può farlo restando fuori dalla cerchia del comando ma anche trovando intese con chi vince, e resta da vedere come si comporteranno i due o tre esponenti M5S che entreranno in Consiglio quando si aprirà la partita per definire gli assetti di Palazzo Malvezzi. “Vigileranno” sulla maggioranza stando dentro o stando fuori?
La terza notizia piuttosto chiara già adesso è che il governo Pd della Regione non è obiettivo polemico né di Benini né dei capi romani. Le sole battute urticanti, nei suoi due comizi, Luigi Di Maio le ha riservate a Matteo Salvini e ai governi regionali del Centrodestra che in Sardegna, Basilicata, Abruzzo e Umbria sono andati all’esercizio provvisorio a causa della mancata approvazione dei bilanci. Per Stefano Bonaccini e la sinistra, che i sondaggi danno come più probabili vincitori, solo un blando riferimento: «Noi possiamo far meglio di loro».
La pax emiliana, fondata sull’addio alle battaglie negli enti locali per perseguire una sostanziale desistenza a vantaggio del più forte, è una scelta in gran sintonia con le esigenze nazionali di Luigi Di Maio, ma è anche il modello potenzialmente più seducente per un Movimento in costante calo che deve giocoforza rinunciare all’ambizione di tornare partito di maggioranza relativa. Fallito l’obiettivo di rovesciare il sistema, perso il podio di primo attore italiano, sciupato per sempre l’allure rivoluzionario del 2018, il terzaforzismo grillino è da tempo davanti a un bivio. Accettare il ritorno all’opposizione, il passo indietro, la regressione verso il mondo del Vaffa Day senza alcuna garanzia in termini di consenso, oppure oppure cambiare faccia. Archiviare il sogno di determinare i destini del Paese. Proporsi nella più modesta veste di sentinella – quella appunto suggerita dall’hastag pro-Benini – per restare nell’area di governo, nonostante il declino, scegliendo di volta in volta una parte in campo.
Il dopo voto ci dirà se queste regionali costituiscano davvero, e già da ora, il consapevole laboratorio di un futuro posizionamento di questo tipo. Se, cioè, le scarse energie messe nella campagna siano una decisione locale o un esperimento più strategico, di maggiore portata: una resa al modello bipolare e al tempo stesso un atto di rassegnazione al ruolo di “partito minore”, cercando di tirarne fuori il maggior vantaggio possibile.
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