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La primarie del Pd? Sono sempre state finte, anche quando contavano qualcosa

Domenica 3 marzo il popolo del Partito Democratico sarà chiamato (nuovamente) alle urne e ai gazebo per eleggere il nuovo segretario. Lo farà, come al solito, attraverso le primarie aperte, il meccanismo di partecipazione introdotto da Walter Veltroni nel 2007 come specifico del nuovo partito. Un partito al tempo stesso nuovo e diverso. Uno scarto netto rispetto alle esperienze passate in cui il personale politico veniva scelto in congressi lunghissimi dedicati ai soli iscritti. Un partito “pop”, allineato allo spirito del tempo e funzionale al mondo che trasforma ogni cosa in uno spettacolo. Quello che sembrava un tentativo nobilissimo di rinnovare attraverso l’ascolto degli elettori e dei simpatizzanti — non solo, quindi, le persone che decidono di iscriversi a di legare la propria esperienza quotidiana alla militanza — un’offerta politica forse troppo stagnante si è rivelata, dopo tredici anni possiamo dirlo, un sostanziale fallimento.

Posto che c’è stato effettivamente un periodo in cui le primarie del Partito Democratico contavano qualcosa per il paese, perché attraverso la scelta del segretario del più grande partito di centrosinistra si cercava comunque di orientare il dibattito politico e si determinava uno spostamento deciso di opinione nel campo largo dei progressisti italiani, con una partecipazione che si allargava fino a portare alle urne circa 3 milioni di votanti (un risultato oggettivamente interessante), si è trattato sempre e comunque di competizioni decise in partenza. L’apertura al pubblico ha portato alla possibilità solo teorica di un rovesciamento di fronte, di determinazione di sorprese che non ci sono mai state. A ogni elezione si confermava il vincitore annunciato. E se nel 2007 doveva vincere ovviamente Veltroni, e nel 2009 era ovvio che doveva vincere Pierluigi Bersani, era altrettanto scontato che nel 2013 la vittoria sarebbe stata di Matteo Renzi così come nel 2017. E da lunedì con tutta probabilità il segretario sarà Nicola Zingaretti. Nessuna possibilità di sorpresa. Nessuna speranza per gli outsider, i maverick come potevano essere Ignazio Marino o Pippo Civati, di cambiare un copione già scritto.

Questa inevitabilità è dovuta principalmente a due motivi. Il primo politico, e il secondo diretta conseguenza della politica spettacolare che rappresenta il tratto più evidente di quella che Colin Crouch ha definito “postdemocrazia”. Prima di tutto, il vincitore ha sempre potuto contare sul supporto della maggioranza del blocco dirigente del partito. Lasciando perdere le contraddizioni evidenti di quegli stessi dirigenti che — per citare il caso più eclatante data la diversità dei due approcci alla materia — prima criticavano Matteo Renzi additandolo come pericolo pubblico numero 1 per la sopravvivenza del partito preferendogli Bersani nella assurda elezione alla premiership del centrosinistra del 2012 (vero antipasto del 2013: forse l’unico congresso “vero” che ha affrontato il Pd, perché al netto di un risultato già scritto, si è discusso su temi, idee e visioni del mondo alternative), poi hanno cominciato ad affollare il carro del vincitore portandogli i voti della base — che storicamente segue la linea della maggioranza — facendogli vincere le convenzioni interne dedicate ai soli iscritti e orientando a favore il dibattito con endorsement pesanti a mezzo stampa. Insomma, anche se le primarie sono aperte, allo spostamento del blocco dirigente coincide uno spostamento di opinione attorno al Candidato “inevitabilmente” designato come vincitore.

Avendo spettacolarizzato anche il confronto politico, inoltre, il Candidato che incarna in sé i tratto dell’inevitabilità riuscirà ad essere più presente sui media. Più interviste. Più editoriali favorevoli sui giornali (e si sa che gli editorialisti non parlano al “paese reale”, ma al mondo degli interessi organizzati). Più endorsement pesanti anche da personaggi esterni alla politica come attori, intellettuali, personaggi televisivi. Si crea un clima di opinione in cui il Candidato diventa l’uomo — eh sì, perché comunque stiamo sempre parlando di uomini — del momento di cui dobbiamo sapere tutto e la cui vita personale e privata dobbiamo mostrare in tutta la sua ampiezza. Uno spettacolo che poco ha a che fare con la politica, e molto invece ha a che fare con quel populismo che il Partito Democratico cerca sempre di attaccare. Puntando al riconoscimento empatico con gli elettori (Bersani solo con la birra; Renzi con le nonne), il Candidato diventa “uno come loro”, e questo è il primo tratto fondamentale di una politica in cui i temi diventano subalterni alle emozioni e dove la simpatia è diventata sinonimo di credibilità. Quando istituzionalizzi la politica delle figurine, ci vuole poco a rendere tutto una figurina. Proprio per questo diventa evidente che anche il clima di opinione fuori dalle stanze della politica andrà a favore del Candidato designato. Chi è più presente riuscirà a far sentire meglio il suo messaggio. O comunque diventerà un volto con cui gli elettori familiarizzano molto più facilmente (e il riconoscimento è fondamentale per essere votati: nessuno legge più il programma). Il tutto alla ricerca di quel consenso popolare plebiscitario che è alla base delle primarie.

Posto che un giorno sarebbe anche il caso di fare un discorso su cosa si intende con la parola “congresso” — cioè un processo di discussione molto serio, da cui si determina la trasformazione o l’evoluzione di un partito e la sua linea di orizzonte da perseguire per i prossimi anni, e non una semplice elezione in cui si indica un leader — qualunque cosa sarà del Partito Democratico da lunedì fino alle prossime elezioni europee (in soldoni: chi vince dà le carte, e gli sfidanti si spartiscono le briciole in base alle percentuali raggiunte. In ballo ci sono le liste e le candidature), dopo il voto bisognerà riflettere pesantemente. Sia sui meccanismi di partecipazione, sia sulle storture derivate da un modello nobile in partenza, ma che ha generato solo il peggio di una politica basata non sul confronto di idee, ma sull’uso del consenso come clava per distruggere l’avversario, Fossilizzando, inoltre, il processo di analisi politica facendo sì che intere classi dirigenti si spostassero da un candidato all’altro restando sostanzialmente sempre uguali nei metodi, nelle parole d’ordine e nell’orizzonte culturale.

Le primarie sono uno strumento da rivedere pesantemente perché hanno generato un paradosso per cui alla massima apertura teorica, è coincisa una grandissima chiusura. Perché anche quando sembrava cambiare tutto, in realtà non cambiava assolutamente niente. Voti plebiscitari “aperti a tutti” a favore dei candidati indicati da pochi. Un capolavoro politico, se vogliamo. Portiamo sempre gli esempi di Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, quando sappiamo benissimo che volessero candidarsi alle primarie del Pd il primo verrebbe tacciato di radicalismo velleitario mentre la seconda invece in qualche modo non riuscirebbe nemmeno a candidarsi. Altroché l’apertura, la partecipazione, il rinnovamento e tutte quelle belle parole con cui ci siamo illusi sentendo i vari discorsi dei vari Lingotti.

In bocca al lupo a Nicola Zingaretti, a Maurizio Martina e Roberto Giachetti. Indistinguibili nei programmi, nelle idee e nelle linee di discontinuità. Protagonisti di un congresso che non è riuscito in nessun modo a fare breccia nell’opinione pubblica. Ridotti a un confronto televisivo visto da pochi all’ora di pranzo. Trattati come comparse nel grande teatro della politica nel momento in cui sta affrontando un cambiamento epocale che ha lasciato fuori tutto quello che i Pd rappresenta. Chiunque vincerà, avrà tanto lavoro da fare. Dalle liste per le europee all’opposizione a Matteo Salvini, dalla ricostruzione del rapporto con la base degli iscritti alla definizione di una linea di orizzonte programmatica per rifare il centrosinistra. Ma magari a qualcuno continuerà ad interessare.

https://www.linkiesta.it/it/article/2019/03/02/primarie-partito-democratico-2019/41285/

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