Alla notizia dell’inchiesta della magistratura sulla fondazione renziana Open, Luigi Di Maio si è affrettato a chiedere, con il tempismo di chi ha i riflessi allenati da lungo tempo, nientemeno che una «commissione d’inchiesta sui fondi ai partiti»; proposta subito appoggiata da Italia Viva, a condizione che il campo d’indagine si estenda anche «alle srl collegate a qualche movimento».
L’idea di promuovere una commissione d’inchiesta parlamentare sull’onda di un’inchiesta della magistratura che coinvolge un preciso partito politico (Italia Viva) è di per sé abbastanza inquietante. Tuttavia, a certe condizioni, forse sarebbe persino un bene che la facessero, questa commissione, e la facessero seriamente: non cioè per sostituirsi alla magistratura, ma per indagare davvero le responsabilità dei partiti nel determinare un quadro normativo sostanzialmente incompatibile con l’esercizio della politica democratica, come quello risultante dall’effetto combinato dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti da un lato e dall’introduzione del reato di traffico d’influenze dall’altro. Un’indagine, questa, da cui uscirebbero tutti condannati senza appello: il Movimento 5 stelle per avere alimentato la campagna antipolitica che ha portato all’abolizione del finanziamento pubblico e alla criminalizzazione dei partiti, Matteo Renzi per averle cavalcate e fatte proprie entrambe (specialmente nella prima fase della sua carriera da leader nazionale), Pier Luigi Bersani ed Enrico Letta per esserne stati di fatto gli esecutori materiali (la progressiva abolizione del finanziamento pubblico, salvo l’ultimo residuale contributo del 2 per mille, è stata avviata dal governo Monti, che ha varato anche la legge Severino sul traffico d’influenze, e portata a termine dal governo Letta).
Il risultato è un sistema in cui i partiti sono costretti a rivolgersi ai privati per finanziarsi, ma al tempo stesso ogni forma di finanziamento da parte dei privati è tacciabile di corruzione. In pratica, il quadro normativo presuppone che un privato possa finanziare un partito a condizione di non ricevere mai e poi mai, né direttamente né indirettamente, il più piccolo beneficio – per non parlare di appalti, commesse, permessi – da alcun esponente del suddetto partito. Dunque, si chiederanno a questo punto i miei piccoli lettori: perché mai dovrebbero farlo? Perché mai un’azienda dovrebbe buttare dei soldi per finanziare un partito, al solo scopo di garantirsi contro l’eventualità che da quel partito possa mai venirle il minimo aiuto? Chi è così pazzo da investire i suoi soldi in una simile anti-assicurazione?
Eppure, cancellato di fatto il finanziamento pubblico, questo è quello che i partiti dovrebbero fare, secondo i promotori di simili perversioni politico-giuridiche: convincere le aziende a pagarli per danneggiarle alla prima occasione, oppure, semplicemente, sostenersi attraverso le microdonazioni, come ripetono ogni giorno – con sublime ipocrisia – gli esponenti di un partito teleguidato da una srl. Un’idea che potrebbe forse avere una parvenza di razionalità in Cina, ma in Italia, con 60 milioni di abitanti, per competere con Forza Italia o con lo stesso Movimento 5 stelle, un qualunque partito di sinistra avrebbe dovuto cominciare a raccogliere microdonazioni ai tempi dell’elezione di Numa Pompilio.
Non dovrebbe esserci bisogno di spiegare perché questo contesto sia di per sé generatore di corruzione, opacità e collusioni. Ma l’abolizione del finanziamento pubblico, si dirà, è quello che vogliono gli italiani, e hanno ripetutamente votato in diversi referendum. È vero, ma personalmente non ritengo sia un’obiezione decisiva, per la buona ragione che sulle regole fondamentali della democrazia non può essere il principio di maggioranza a decidere, altrimenti nessuno Stato di diritto sarebbe possibile.
Scrive Matteo Renzi su Facebook, dopo avere espresso la sua amarezza per le «decine di famiglie perbene» svegliate dai finanzieri solo perché un loro congiunto ha finanziato la sua fondazione: «Sono giunto al paradosso di dare un suggerimento per il futuro alle aziende: vi prego NON FINANZIATE Italia Viva se non volete passare guai di immagine. È un paradosso perché proprio noi avevamo voluto l’abrogazione del finanziamento pubblico e un sistema trasparente di raccolta fondi all’americana».
Si può capire la sua amarezza, ma corre ugualmente l’obbligo di correggere un’imprecisione: non si tratta di un paradosso. Si tratta di un contrappasso.
https://www.linkiesta.it/it/article/2019/11/27/italia-viva-inchiesta-open-finanziamento-pubblico/44531/