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La vittoria in Emilia? Il Pd deve ringraziare i Cinque Stelle. E possibilmente smettere di scimmiottarli

 

In Emilia Romagna, la vittoria di Bonaccini è dovuta allo spostamento degli elettori del M5S sul PD e sul governatore uscente. Questa è la conclusione di uno studio dell’Istituto Cattaneo sui flussi elettorali nelle città di Forlì, Ferrara, Parma e Ravenna, dove tra la metà (a Ferrara) e oltre i due terzi (a Forlì) di elettori del M5S alle scorse elezioni europee hanno votato Bonaccini.

Non si tratta di un voto disgiunto, dunque, ma di un voto direttamente trasmigrato a sinistra, complice il sistema elettorale a turno unico e la polarizzazione pro e contro Salvini. È come se gli elettori del M5S, in grande maggioranza, avessero accettato la proposta di alleanza avanzata anche in Emilia Romagna dal PD e rifiutata dai vertici nazionali e locali dell’ex primo partito italiano.

Non so quanto sia possibile definire questo come un fenomeno di riflusso del voto di sinistra, che era uscito dal PD per andare in direzione dei 5 Stelle e poi, in parte, anche verso la Lega e che oggi torna finalmente “a casa”. Questa è la lettura che più volentieri accrediteranno al Nazareno, ascrivendone i meriti alla strategia dialogante inaugurata con il Governo Conte II: un amichevole abbraccio mortale che ha consentito a Zingaretti di riassorbire l’elettorato grillino tributando gli onori delle armi all’ex capo politico Di Maio («un abbraccio per la scelta difficile che rispettiamo») e generosissimi riconoscimenti al Presidente del Consiglio («oggettivamente, un punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste»).

Della vittoria di Bonaccini oggi si può dire, quasi indifferentemente, che dimostra che la sinistra può vincere senza il M5S, ristabilendo il primato della politica sull’antipolitica e del buongoverno sul non governo, ma anche che la sinistra non può vincere senza soddisfare le ragioni per cui l’elettorato ex grillino si era votato alle sirene del Movimento, al giustizialismo para-totalitario, al miracolismo economico, alla retorica dell’onestà e della dignità, cioè, nella sostanza, senza incorporarne e interpretarne “da sinistra” i motivi ispiratori.

In fondo il modello demo-populista che Zingaretti, Franceschini e la classe dirigente del PD hanno stabilito essere la prospettiva strategica del nuovo centro-sinistra italiano non nasce solo dalla necessità di associare al potere, in funzione anti-salvianiana, quel che restava delle truppe in rotta del M5S, per evitare di tornare rapidamente al voto e consegnare la probabile vittoria alla destra.

Nasce in primo luogo dalla persuasione che il M5S sia, per la sinistra, una “pena meritata” e la sua cultura totalitaria una sorta di reazione nevrotica al tradimento delle ragioni del popolo. Nasce insomma dall’idea assurdamente autocritica che gli elettori che chiedevano di “fermare il mondo” e di scendere dalle montagne russe della globalizzazione, della competizione internazionale, della modernizzazione civile e sociale di un paese economicamente immobile e culturalmente regredito, avessero sostanzialmente ragione e che il torto – di Di Maio, dei grillini di potere – fosse stato di offrire a queste domande di sinistra delle risposte di destra.

Il Governo Conte II, insomma, non nasce dalle sbornie del Papeete, ma dal tentativo di Bersani del 2013 di riallacciare le fila di una vicenda politica che nell’ostilità parossistica contro il PD sembrava rivelare l’appartenenza all’album di famiglia della sinistra. In una geniale imitazione di Veltroni, Corrado Guzzanti gli faceva dire che la sinistra «non poteva regalare il berlusconismo a Berlusconi». Mutatis mutandis, è come se Zingaretti oggi dicesse che non si può regalare il grillismo ai grillini.

L’impressione è che la ricomposizione a sinistra del voto ex M5S avvenuta in Emilia Romagna, forse anche grazie all’implicita intermediazione delle cosiddette sardine, non sarebbe così agevole in altre realtà italiane. Ma l’impressione più forte, che ovviamente dal quartiere generale del PD avverseranno con tutte le forze, è che il modello demo-populista non appartiene al novero delle soluzioni della crisi italiana, ma ne è una delle manifestazioni che finiscono per cronicizzarla, suggerendo che dalle sabbie mobili del declino economico, dell’inciviltà giuridica e della marginalità internazionale l’Italia possa uscire tirandosi su da sola per i capelli, come il Barone di Münchhausen.

 

 

 

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