Sabato su “La Stampa” il ministro Franceschini è ritornato sull’argomento dell’alleanza strategica tra il Pd e il M5S sostenendo la tesi che questa strategia politica non abbia alternativa e che per costruirla bisogna realizzare in tutte le scadenze elettorali da qui al 2023 l’asse con il movimento. Senza se e senza ma, perché le due forze politiche insistono sullo “stesso popolo”.
Emerge la convinzione inquietante che quell’alleanza poggi sul riconoscimento che entrambe possiedano, oltre che lo stesso referente elettorale, anche le stesse inclinazioni e condividano gli stessi principi. Ora, ipotizzare che nel giro di un anno un partito riformista – quale era il Pd, fondato sul manifesto del Lingotto e parte integrante del socialismo europeo – abbia modificato così radicalmente la propria tavola dei valori da poterla quasi sovrapporre a quella di un movimento populista i cui elementi di destra sono assai superiori a quelli di sinistra, lascia sorpresi. E impone di riflettere su quale profonda trasformazione abbia coinciso con l’affermazione della maggioranza zingarettiana.
Nelle parole di Franceschini c’è una rassicurante dose di ministerialismo proprio di tanta classe dirigente ex democristiana: il che lascia sperare che il richiamo alla lunga durata dell’alleanza demopopulista possa diventare rapidamente reversibile di fronte ai prossimi esiti elettorali. E che comunque nasconda la convinzione che la classe dirigente del M5S sia così provvisoria e labile da poterla prima cauterizzare e poi espellere, tenendosi però i suoi elettori.
Chi invece crede all’unità ideale tra Pd e M5S sono i dirigenti “corbyniani” del Pd. Ha scritto qualche giorno fa Francesco Boccia: l’alleanza tra Pd e M5s è strategica perché i due partiti hanno le “stesse pulsioni sociali”. Ha detto proprio cosi: pulsioni sociali. Fino ad ora le pulsioni sociali del M5S sono state i condoni fiscali e edilizi, il reddito di cittadinanza, la chiusura dei porti, la deindustrializzazione condite con un ricorrente “tintinnar di manette”. Non sono una novità: sono gli architravi del progetto populista che attraversa il Pianeta.
Ma condividere queste “pulsioni” significa certificare una trasformazione profonda della cultura politica del PD, perché quelle misure – e quelle che più volte Boccia e Provenzano hanno provato a delineare – sono del tutto estranee al riformismo che fin dalle sue origini è stato il profilo ideale e progettuale dei PD. La cura Zingaretti alla ricerca del “popolo di sinistra” (suggerita da Bettini, Bersani e D’Alema) può portare il Pd fuori dal riformismo – così ben delineato nell’intervista di Enrico Morando a “Il Manifesto” – collocandolo in una specie di terra di nessuno ai margini del (e subalterna al) populismo, sempre più lontana da quella sinistra liberalprogressista che era la cifra politica più significativa del Pd di Veltroni e di Renzi.
La diaspora di militanti, elettori, amministratori verso Italia viva trova in questo processo la sua effettiva ragione: altro che il carattere di Renzi e il partito personale. Più il Pd si sente affascinato dalle “pulsioni sociali” di una specie di peronismo casereccio diretto da un’azienda privata e da un attore in pensione, più confonde sinistra con populismo, più i riformisti che in Italia sono tanti se ne andranno.
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