Dopo due anni di frenate e accelerazioni iniziate con il governo Gentiloni e continuate con il Conte-1 gialloverde in una teoria infinita di vertici e polemiche governative, la questione dei tempi di attuazione dell’autonomia differenziata sollecitata da nove regioni diventa l’incognita decisiva per il Paese
di Gianni Trovati
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L’autonomia differenziata non scalda i cuori degli imprenditori riuniti a Cernobbio. Certo, la platea internazionale non è quella giusta per far sognare sulle magnifiche sorti del trasferimento di competenze ai territori, e il tema finisce per svilupparsi sornione in una domenica mattina svuotata dalle assenze governative per il calendario sfortunato che ha fatto piombare il Forum alla vigilia della fiducia al Conte-2. Ma a rendere ostica l’autonomia è soprattutto il tratto bizantino ormai assunto da un negoziato infinito, che ora pare ricominciare da capo.
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«Bisogna ripartire da lavoro fatto fin qui», rilancia il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini che con il cambio di governo vede il “modello Bologna” occupare il centro della scena scalzando la strada Lombardo-veneta cara alla Lega. L’autonomia “moderata” che passa dalla definizione di costi standard e livelli essenziali delle prestazioni, abbozzata nel programma di governo giallorosso, è senza dubbio parente stretta della proposta emiliana: «L’ho detto fin dall’inizio», rivendica Bonaccini, secondo cui le spinte leghiste hanno dato argomenti a chi «in buona o cattiva fede ha lanciato allarmi sui rischi per l’unita del Paese». Ma ora, dopo due anni di altalena avviata con il governo Gentiloni e sviluppata dal Conte-1 gialloverde in una teoria infinita di vertici e polemiche governative, la questione dei tempi di attuazione diventa l’incognita decisiva. Nella nuova maggioranza è forte la voglia di ridiscutere da capo le competenze da assegnare alle regioni, di ripensare alle radici i meccanismi di finanziamento e di coinvolgere in via preventiva il Parlamento su tutti i punti chiave. E da Cernobbio, per ora, una possibilità di accordo non si vede.
Basta una breve rassegna delle parole dei governatori per capirlo. Per Attilio Fontana, presidente leghista della Lombardia , «evocare i costi standard sa di presa in giro perché a volerli siamo stati prima di tutto noi, con la legge Calderoli del 2009, ma allora ci dicevano che volevamo spaccare il Paese. Adesso apprendiamo invece che servono all’esatto contrario». Fontana, come il collega veneto Luca Zaia, ha chiesto ruoli regionali degli insegnanti per evitare la fuga dalle cattedre. Ma questo «non si farà mai – giura il presidente della Campania Vincenzo De Luca, uomo forte del Pd al Sud – perché è assurdo pensare a una scuola di serie A e una scuola di serie B». «Se non ci daranno l’autonomia sulla scuola faremo una nostra legge», rilancia Fontana.
Dal canto suo Bonaccini torna a rivendicare che «non chiediamo un euro in più allo Stato», e sul punto la musica è simile in Lombardia e Veneto. Ma stona rispetto al “fondo di perequazione” che è indispensabile per il programma Pd-M5S. «Da De Luca non ci dividono le posizioni, ci dividono i conti», chiosa Fontana con sintesi efficace.
Il compito di mettere insieme le tessere di un puzzle travolto dal cambio di maggioranza toccherà al neo ministro degli Affari regionali Francesco Boccia, che nelle prossime settimane avvierà gli incontri con i governatori sui territori. Ma a complicare il suo tour c’è il fatto che l’autonomia spacca geograficamente anche i partiti della nuova maggioranza. In Lombardia e Veneto Pd e M5S a suo tempo hanno raccolto le firme per i referendum autonomisti, anche per non lasciare al Carroccio l’esclusiva sul tema; a Bologna lo stesso Pd ha evitato la strada del referendum per non colorare di toni rivendicazionisti i dossier sulle competenze amministrative. A Roma, fin qui, il Pd è stato quanto meno freddo sul tema, e i Cinque Stelle si sono schierati nettamente all’opposizione.
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