Non sono mai stato un fan di Bettino Craxi, da non socialista semmai ero più martelliano. Ovviamente riconosco la grandezza storica di Craxi, contro il consociativismo, per l’autonomia dal partito comunista e a favore dei dissidenti del totalitarismo dell’Est. Non mi piacevano le sue leggendarie pause né gli occhialoni vermigli come il garofano, non mi affascinava la retorica garibaldina né l’estetica pansechiana. Non sopportavo San Patrignano, figuriamoci Sigonella, ma era la sua stretta amicizia con Yasser Arafat a rendermelo alieno. Quando ancora oggi i suoi lasciano intendere che con i fondi illeciti aveva finanziato l’Organizzazione per la liberazione della Palestina per me non è un’attenuante, ma un’aggravante. Sul momento, non mi ero entusiasmato nemmeno al famoso e potente discorso in Parlamento del 1992 sul finanziamento illecito alla politica, quando sfidò gli altri partiti ad alzarsi a contraddirlo e nessuno si alzò, tranne i radicali.
Certo mi piacevano le sue battaglie referendarie, sulla giustizia e sul nucleare, più martelliane che craxiane in realtà, ma sono diventato craxiano, diciamo così, con la gogna delle monetine, con la caccia all’uomo anzi al «cinghialone», anche se ora Di Pietro dice che a lui Craxi non interessava. Non si poteva non essere craxiani di fronte alla barbarie del rito ambrosiano di Borrelli, Davigo e di tutti gli altri, nella patria di Cesare Beccaria poi, senza che per questo si dovessero condonare gli illeciti eventualmente commessi dal sistema partitocratico di cui faceva parte. E, visto che ci siamo, l’idea che rubare per il partito fosse meno grave che rubare per se stessi mi è sempre sembrata una scemenza, perché chi ruba per arricchirsi personalmente è un semplice corrotto, facilmente individuabile e punibile, mentre chi ruba per il partito corrompe il processo democratico e sono guai seri per tutti (nella mia gerarchia dei reati, rubare per il partito è meno grave solo di rubare per aiutare chi voleva cancellare militarmente Israele).
Questa lunga premessa, soltanto per arrivare a scrivere che non mi sono affatto stupito che gli eredi della tradizione comunista confluiti nel Pd, nella cosiddetta “ditta”, non siano andati in delegazione ad Hammamet in occasione del ventennale della morte di Craxi, fatta eccezione per Giorgio Gori che però sta alla “ditta” come Antonio Conte sta all’Inter.
Craxi è stato il nemico numero uno di un paio di generazioni di dirigenti politici del Pci, poi Pds, poi Ds, poi Pd che gli hanno scatenato contro la più portentosa macchina del fango del Dopoguerra con effetti tragici sulla politica e sulla società.
Il populismo italiano di oggi è la diretta conseguenza di quella campagna mediatica, culturale e giudiziaria e non è un caso che gli eredi di quella tradizione politico-giornalistica adesso in buona parte spingano per un’alleanza strategica con i Cinque stelle. Da Beppe Grillo che tuonava contro i socialisti fino alle Feste dell’Unità che servivano trippa alla Bettino e da Repubblica che lo raffigurava con gli stivaloni del Duce fino ai magistrati a caccia del cinghialone, l’antipolitica odierna è nata con i «vai avanti Di Pietro», con i talk che davano voce alla gente, con il popolo dei fax, con Telekabul. E contro Craxi. In quel maledetto 1993, “l’anno del terrore” secondo un fondamentale libro di Mattia Feltri, mentre il mondo civile costruiva le basi della globalizzazione e della rivoluzione digitale, da noi è stato avviato un demagogico indottrinamento generazionale che ci portiamo dietro ancora oggi: il prodotto di uno scontro di inciviltà tra la corruzione politica e la via giudiziaria al potere, con corollario di tangenti, suicidi, carcerazione usata come strumento di confessione, partiti diventati bande da sgominare, processi sommari in piazza e sui giornali anziché nelle aule dei tribunali. In quegli anni si è imposto l’archetipo dell’«uno vale uno», il primo richiamo alla democrazia diretta sia pure in forma analogica, il modello originale della disintermediazione, dei troll e dei selfie pseudopolitici che vanno di moda adesso.
Fare i conti con Craxi non è un’operazione storica che si possa fare senza ira e senza pregiudizi, perché l’anticraxismo militante, poi diventato antiberlusconismo e infine antirenzismo, oggi è al governo e in testa ai sondaggi nella variante di destra in questo momento all’opposizione. Fare i conti con Craxi è cronaca e analisi politica contemporanea. Ad Hammamet non è andato solo un leader socialista colpito e colpevole, c’è finita l’idea di modernizzare l’Italia. Qui sono rimasti quelli che lanciavano le monetine e i loro volenterosi complici.
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