La richiesta di autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini da parte del tribunale dei ministri di Catania ha riportato bruscamente in primo piano tutti gli argomenti del dibattito che si era già ampiamente svolto in parlamento e sui giornali nell’agosto dell’anno scorso, in occasione del caso Diciotti. La principale novità, questa volta, è data dalla posizione del Movimento 5 stelle e del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, i quali allora salvarono il leader della Lega dal processo e oggi invece sembrano fermamente intenzionati a non farlo, sulla base dell’argomento secondo cui il caso Gregoretti, nave militare italiana con 131 naufraghi a bordo tenuti a mollo per tre giorni prima che l’allora ministro degli Interni ne autorizzasse lo sbarco, e il caso Diciotti, nave della guardia costiera italiana con 177 naufraghi a bordo tenuti a mollo per sei giorni prima che l’allora ministro degli Interni ne autorizzasse lo sbarco, sarebbero del tutto diversi.
Dunque la discussione torna al punto di partenza, che è però il punto più sbagliato e più pericoloso di tutti. Tanto i difensori di Salvini quanto i suoi accusatori dell’ultim’ora, infatti, sembrano condividere il principio secondo cui il governo, qualora lo ritenga collegialmente necessario e coerente con il proprio indirizzo, avrebbe la facoltà di fare qualunque cosa, eventualmente anche di commettere un reato, senza che i suoi membri possano essere chiamati a risponderne in un processo. A quanto pare, per i cinquestelle il problema è che la stessa decisione, assunta l’anno scorso da tutto il governo, nel caso della Gregoretti sarebbe stata presa invece dal solo ministro dell’Interno, il quale di conseguenza non sarebbe più meritevole di immunità, mentre secondo la Lega anche quella decisione sarebbe stata condivisa da tutto l’esecutivo. Come si vede, il dissenso riguarda semplicemente un dato di fatto – l’avvenuta o mancata condivisione della scelta da parte del governo – non già il diritto del governo, qualora lo ritenga necessario, di violare i diritti fondamentali di persone innocenti.
L’assurdo dibattito che si sta riproponendo riporta così all’attenzione un grave problema di analfabetismo democratico, reso particolarmente evidente dalla diffusa teoria secondo cui i garantisti, per coerenza, avrebbero dovuto schierarsi in difesa di Salvini. Evidentemente in base alla convinzione, figlia di trent’anni di scontri manichei tra berlusconiani e antiberlusconiani, che essere garantisti significhi avercela sempre e comunque con i magistrati, a prescindere. Cogliamo dunque l’occasione per introdurre un’utile distinzione: quello vuol dire essere delinquenti. Essere garantisti significa un’altra cosa. Vuol dire avere a cuore le garanzie costituzionali a tutela dei diritti dell’individuo, che siano minacciate dagli abusi di un pubblico ministero o da qualunque altro potere dello Stato. E tanto più, di conseguenza, se a minacciarle è un intero governo. O un politico che il diritto di commettere simili abusi non solo lo rivendica, ma già promette di tornare a esercitarlo non appena gli elettori gliene daranno nuovamente occasione.
Il punto è tutto qui: difendere a ogni costo l’esistenza di precisi limiti al potere esecutivo, a tutela dei diritti e della libertà di ciascuno.
Di conseguenza, l’unica cosa su cui si può serenamente dare ragione a Salvini è il giudizio sui Cinque Stelle e sul loro clamoroso voltafaccia. O almeno si potrebbe, se nell’esprimerlo il leader dei sovranisti italiani non avesse dimostrato ancora una volta un sovrano disprezzo nei confronti delle nostre tradizioni, della nostra cultura e delle più autentiche radici della nostra identità nazionale, che pure invoca continuamente come scusa quando tiene in ostaggio per giorni decine di naufraghi disperati. Queste sono state infatti le sue parole, per giunta chiaramente preparate, nella conferenza stampa di ieri, in polemica con Luigi Di Maio: «C’è una canzone di Mia Martini, “Piccolo uomo”, e c’è un’altra citazione della coppia De André-Villaggio, “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers”. Là c’era Carlo Martello che andava a mignotte, detto papale papale, e la frase è che “più dell’onor poté il digiuno”; attualizzata al 2019, più dell’onor poté la poltrona: lo scambio, il mercimonio, non è molto dissimile da quello che narravano Villaggio e De André».
A rischio di apparire pedante, mi sembra giusto segnalare all’instancabile difensore dei nostri confini, delle nostre tradizioni e della nostra identità che quella di Villaggio e De André era a sua volta una citazione (dovrei dire una parafrasi, ma non voglio complicare troppo le cose). Citazione ripresa da un famoso poema, opera di un rifugiato politico che sapeva assai bene, per averlo provato sulla sua pelle, cosa significa dover vagare per terre straniere, respinti da tutti. Tanto da scegliersi come modello, per il suo capolavoro, un altro poema interamente dedicato a questo: alla vita di un profugo, e alle sue peripezie per mare e per terra. Un rifugiato al quale giusto all’inizio della storia pareva volessero negare lo sbarco, facendolo arrabbiare al punto da gridare (nella bella traduzione di Vittorio Sermonti): «Ma che gente è questa? che barbara patria consente/ usi cosiffatti? Ci è interdetto l’asilo della riva;/ ci muovono guerra, vietano di stanziarci in terraferma./ Se spregiate il genere umano e le armi dei mortali,/ temete almeno negli dèi la memoria del bene e del male».
E anche a noi toccherà sperare nella memoria degli dèi, perché quella dei mortali appare decisamente infiacchita. Nel frattempo, è pretesa eccessiva domandare ai nostri sovranisti di non offendere almeno la memoria del padre della nostra lingua, e i valori su cui l’intera nostra civiltà è stata costruita?
https://www.linkiesta.it/it/article/2019/12/20/salvini-processo-gregoretti-lega-diciotti/44826/