Quella di ieri era l’ultima riunione utile per decidere lo stop a una serie di articoli e commi di quella legge. Che peraltro parlano anche di ambiente e urbanistica oltre che di “misure per favorire i rimpatri” con fondi regionali
di Gianni Trovati
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Non è la scelta di impugnare la legge regionale 9/2019 del Friuli Venezia Giulia, decisa giovedì nel primo consiglio dei ministri del Conte-2, ad avviare il cambio di passo giallorosso sulla politica dell’immigrazione. Per una ragione semplice: il semaforo rosso acceso dal governo è l’ultima tappa dell’esame a cui quella legge è stata sottoposta a luglio dal governo Conte-1, quando al ministero degli Affari Regionali sedeva la leghista Erika Stefani.
La crisi d’agosto e la sospensione delle riunioni a Palazzo Chigi hanno fatto il resto. Quella di ieri, quando il governo è tornato nella sala del consiglio anche se con molti attori diversi, era l’ultima riunione utile per decidere lo stop a una serie di articoli e commi di quella legge. Che peraltro parlano anche di ambiente e urbanistica oltre che di «misure per favorire i rimpatri» con fondi regionali.
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Più delle ragioni dell’impugnativa, allora, è il suo calendario a spiegare la battaglia incendiaria subito esplosa fra la Lega, che con il presidente friulano Fedriga parla di “attacco grave” al Friuli, e il Pd che vuole marcare una differenza netta con la politica migratoria gialloverde. Ma è un calendario, appunto, obbligato. Perché la legge porta la data dell’8 luglio, e il meccanismo che inonda la Consulta di leggi regionali viaggia a tappe forzate. Le scelte legislative delle regioni vengono prese in carico dagli Affari regionali, che le analizzano insieme agli altri ministeri di volta in volta competenti per materia.
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