Diciamo la verità, non ne stiamo venendo a capo, non sappiamo fare previsioni, non riusciamo a trovare le medicine giuste, come fossimo tanti Charles Bovary nella Normandia dell’Ottocento. Il problema è epocale: stanno saltando tutte le acquisizioni intellettuali più moderne mentre la politica guarda al domani e non al dopodomani, come diceva Aldo Moro.
Siamo infatti ben oltre le descrizioni di pochi anni fa sull’”età dell’incertezza”. Prendiamo due libri famosi. Sia Yuval Noah Harari nelle sue “21 lezioni per il XXI secolo” (Bompiani, 2018) che Zygmunt Bauman ne “L’ultima lezione” (Laterza, 2018) avevano pensato di mettere un punto conclusivo alla riflessione storica e sociologica globale. Per entrambi, infatti, l’umanità vive (siamo a soli due anni fa!) un’incertezza ancora più profonda di quelle vissute nel “secolo breve” durante il lungo periodo delle due guerre mondiali e della guerra fredda.
Catastrofe ambientale, clima, integralismo, insicurezza davanti ai misteri della tecnologia: ecco le nuove paure. Malgrado ciò, entrambi gli studiosi, secondo la loro prospettiva, restavano fiduciosi nella possibilità che l’umanità ha di governare il caos contemporaneo.
Ma la loro visione neoilluminista ora entra in crisi con l’irruzione del coronavirus. L’incertezza viene elevata alla millesima potenza, amplificata dalle clamorose défaillances dei più grandi strumenti che l’umanità ha a disposizione: la scienza e la politica.
Atterrando su lidi più vicini alla nostra esperienza quotidiana, in due parole, non sappiamo ciò che ci aspetta. La gamma delle possibilità va dalla sparizione del virus ai suoi costanti ritorni ogni inverno. Il giorno e la notte.
Gli scienziati alternano evidenze, speranze, dubbi, indicazioni, protagonismi che nel frullatore mediatico finiscono per generare il massimo dell’incertezza: nella stessa serata, uno scienziato dice in una trasmissione che il vaccino è quasi pronto e in un altro talk un suo collega afferma che se ne parla fra due anni.
Certo, nessuno ha la verità in tasca, si va per tentativi, per intuizioni, per esperimenti, sappiamo da secoli che la scienza ci mette un po’ per diventare “esatta” anche se noi vorremmo la soluzione qui e ora perché da anni siamo abituati a risolvere i problemi con un clic. Però il rischio enorme è di uno scetticismo di massa sul sapere scientifico, sui suoi attori, con un effetto devastante sulle coscienze del genere umano perché questo scetticismo diffuso conduce alla morte della modernità.
Ma il regno più minato dall’incertezza è la politica. E non parliamo qui del “gioco politico” che per sua natura è imprevedibile o quasi: sappiamo che basta un mojito per cambiare un governo. No, qui parliamo della politica come grande idea di organizzazione del mondo e della società. La grande politica. Verrà più democrazia, meno democrazia?
Ci abitueremo allo stato d’emergenza, alla riduzione dei diritti? A un Parlamento mezzo chiuso, a partiti ultra-oligarchici, a elezioni materialmente impossibili a farsi (come sa anche il presidente della Repubblica)? A una sinistra che si smarrisce nella rincorsa di antichi dogmi e una destra che si rimette la maschera feroce?
Nella grande crisi economica che può sommergere una classe dirigente forse vivacchieremo rubandoci le briciole l’un l’altro, qualcosa di peggio della “società parassita di massa” come la chiama Luca Ricolfi, sarà un gigantesco regno hobbesiano. Se non interviene, di nuovo usiamo questa iperbole, la Grande Politica. I leader, i competenti, gli statisti: cerchiamoli, forse ci sono anche se non si vedono tanto in tv.
Si dice tanto in questo periodo di Winston Churchill che vinse la guerra ma perse le elezioni. Enorme impresa, vincere la guerra. Ma, seppure molto meno eroica, fu grande il disegno politico del suo avversario, Clement Attlee, che non era un uomo intellettualmente eccezionale ma aveva gran senso pratico, e capì che, archiviata la vittoria (ché le vittorie si archiviano in fretta, come da noi sperimentarono Togliatti e Nenni nel ‘48 che si aspettavano la vittoria e furono stracciati dalla Democrazia cristiana), gli inglesi volevano un’idea di Stato semplice e giusta. Attlee poteva contare su una squadra di ministri fortissima (Bevin, Wilson, Cripps, Bevan) e applicò le tesi di Lord Beveridge sul welfare state, realizzandolo.
Noi non abbiamo Churchill ma ciò che forse è ancora più inquietante è che non abbiamo nemmeno un Attlee in grado di proporre una nuova Italia dopo la pandemia. Il governo fa quello che può, fra inciampi e pasticci. Come ha notato Sabino Cassese, «l’ultima fase della politica italiana è stata caratterizzata dal disprezzo della competenza e dell’esperienza. Delle conoscenze acquisite sul campo. Di chi ha fatto, gestito, non solo studiato».
Per ora sembra che gli italiani giustifichino il contiano bordeggiare giorno per giorno, il suo gestire senza respiro, il suo protagonismo un po’ molle: ma quando l’incertezza dovesse diventare insopportabile potrebbe venire avanti qualcosa che ancora non vediamo bene ma che grosso modo potrebbe assomigliare ad una richiesta di rigenerazione completa del Paese. Una roba da Franklin Delano Roosevelt più che da Giuseppe Conte.
Oppure, Dio non voglia, prendere le fattezze di una ribellione degli animi prima ancora che dei corpi. Se ne rendono conto questi nostri leader? Da questo punto di vista, le grandi crisi o generano grandi classi dirigenti o segnano il declino storico di una Nazione. E la grande incertezza che sovrasta tutti noi regna anche su questo verdetto della Storia.
L’era dell’incertezza è iniziata, solo la Grande Politica può salvarci