I segretari dei partiti della maggioranza di governo non si divertono più (se mai si sono divertiti). È gente stanca, nervosa, annoiata, stressata. Hanno fatto tanto per conquistare la leadership e ora è come se non sapessero cosa farci. Al termine di un lunghissimo anno politico sbadigliano infastiditi, se non irati. Quando ridono lo fanno forzatamente, per una telecamera. Zingaretti, Renzi, Di Maio: diversi ma accomunati in questa insoddisfazione di fondo, persistente, ogni tanto addolcita da qualche successo effimero, o meglio passeggero, da qualche titolo di giornale, dalle lucette rosse delle telecamere, dagli ossequi di postulanti di vario tipo, e naturalmente dagli applausi che i fedeli comunque gli tributano. Portano la croce di una governabilità forzosa di cui non vedono i dividendi ma solo le rogne, mentre il Paese non li pensa per niente preso com’è dai fatti suoi e semmai chi si agita nella società non lo fa per loro ma contro di loro – è la stagione delle sardine, no?
Costretti a guardarsi alle spalle, sospettosi verso amici e compagni, diffidenti verso gli alleati, i segretari non si fermano mai forse anche per evitare di guardare un po’ meglio dentro di sé. Un classico, non ci vuole Freud. Chissà cosa pensano quando si è fatta sera.
Mentre Giuseppe Conte è veramente felice. Uno sconosciuto professionista di cose di legge divenuto come per caso il numero uno d’Italia, in una specie di favola d’altri tempi di cui non si ricorda più neppure come tutto cominciò. Bastava guardarlo l’altra sera da Floris: non se ne sarebbe andato mai. Preciso come un bisturi, affabile come un rampollo dell’aristocrazia di provincia, orgoglioso come uno studente del suo trenta e lode, ha fatto mostra – come si diceva a scuola – di sapere tutto. Doveva essere un Giovanni Goria 2.0, ora pare Giovanni Giolitti. L’uomo con qualche qualità, un bel passo avanti rispetto all’eroe di Musil. Segno dei tempi. Ma Conte è il premier, un premier vero che ha imparato come si fa. Nella stanza dei bottoni i bottoni continuano a non esserci, come diceva il povero Nenni, ma intanto ci si sta comodi.
I segretari dei partiti invece sono solo dei segretari dei partiti. Partiti che non funzionano. Per quanto si ingegnino, Zingaretti, Renzi e Di Maio sono accomunati dalla medesima condizione di dover guidare accrocchi che annaspano o nel caso di Di Maio ridotti allo stato gassoso. Verrebbe da dire, con dolore, che certe volte sembra che i partiti non servano a niente, se non, al massimo, a fungere da “agenzie interinali” (come dice Christian Rocca) per sfornare personale di governo. Si cerca la visibilità, non la profondità.
Il meno fortunato è Nicola Zingaretti, novello San Sebastiano trafitto da mille lance. Forse il suo torto è di farlo troppo a vedere, così che tutt’al più raccoglie solidarietà quando non commiserazione, il che non depone affatto bene per un leader politico. D’altra parte Zingaretti guida una macchina che da quel dì sarebbe dovuta passare da meccanici e carrozzieri e che invece si sfascia ogni giorno di più. Comprensibile dunque che egli voglia chiamare tutti a un bel Congresso, medicina talvolta amara e talaltra inutile, ma hai visto mai aiutasse a dissipare questa grande stanchezza? Uno scatto, ecco quello che tanti chiedono al Pd e al suo segretario, uno scatto e non un selfie.
Di Maio si salva un po’ più facilmente perché è giovane, anche se non lo sembra. Ma anche lui vive uno stress brutto. Sgusciare perennemente, come un debitore inseguito dagli usurai, un colpo qua e una schivata di là, un po’ di sinistra è un po’ di destra, un po’ con “Giuseppe” un po’ con “Alessandro”, un po’ mi presento alle regionali un po’ no: un “Capo politico” senza truppe vere ma con una brigata di soldati semplici e caporali assiepati in Parlamento per il rancio quotidiano. Che stress, che noia. In meno di due anni ha portato il Movimento da primo a terzo partito (e stesse attento perché Giorgia-sono-cristiana è lì dietro), pensava di divertirsi girando il mondo da ministro degli Esteri, ma è meglio per lui e per l’Italia se resta a Roma, è un lavoro troppo difficile per un ragazzo di Pomigliano senza esperienza che però appunto ha tutta la vita davanti: anche se sai che divertimento fare l’ago della bilancia tutta la vita.
E Renzi? Renzi il modo per fare casino, che poi è lo stato che predilige, lo trova sempre: ma la sua bulimia vitalistica si scontra con la realtà di contare il giusto, nella misura cioè della finitezza del suo piccolo partito. Ecco, Renzi pensava andasse meglio. Forse ha sottovalutato alcune cose. Il peso del passato, le antipatie suscitate, le vendette a lui promesse. Forse non ha capito che dopo aver fatto il numero uno, mettersi a fare il numero quattro o cinque è pesante, per il suo super-io. E quindi Renzi briga, escogita, sonda, minaccia, avanza, blandisce, rompe, tenta, si erge, rimugina, s’intestardisce, si placa, riparte: in un incessante moto interiore e esteriore, sovente forzando i dati della realtà e trovandosi solo contro tutti, una condizione che ama e che però alla lunga logora. Che fare, diceva quello: tenere bordone a un Conte qualsiasi, mutare spalla al fucile con quello sfigato di Salvini (ah, eccone un altro coi nervi a pezzi), aspettare che tutto cambi eccetera eccetera? Insomma, vivere o vivacchiare? Interrogativo inquietante per uno come lui.
Dunque, se non fosse frase abusatissima si direbbe che per i tre segretari è davvero una stagione del (loro) scontento, un incombere di un inverno con pochissima luce e tanti pensieri. Un destino cinico che mangia i politici puri e soddisfa i non politici, tipo il premier o un Mattia Santori: era scritto che andasse così? Probabilmente no, è anche colpa loro.
(Chi sta bene è invece è Robertino Speranza, che un partito vero non ce l’ha ma solo un gruppo di amici che non rompe le scatole e che anzi vive per il suo ministro della Sanità, in fondo è un lavoro interessante, e poi poteva andare molto ma molto peggio).
www.linkiesta.it