Neanche sei giorni dall’ultimo decreto del presidente del Consiglio sulle nuove misure in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 che già non si contano i distinguo interpretativi e le uscite dei presidenti di Regione al riguardo. Come quella di Vincenzo De Luca, governatore della Campania, che ha dichiarato: «I quartieri vanno militarizzati».
Sul delicato periodo che l’Italia si trova a vivere, tra necessità di tutelare la salute della cittadinanza e valutazione delle ricadute di tali misure sulla nostra economia, abbiamo cercato di fare il punto con Ivan Scalfarotto, sottosegretario agli Affari Esteri e Cooperazione internazionale.
Sottosegretario Scalfarotto, in un tweet di alcuni giorni fa ha invitato a tenere a mente che per l’economia italiana sono vitali frontiere e mercati aperti. Un messaggio un po’ controcorrente in tempi in cui le chiusure sono necessarie per contrastare la diffusione del Covid-19, non le sembra?
L’Italia sta vivendo in questi giorni come in una bolla, una chiusura determinata non da una scelta politica ma da un’emergenza sanitaria inimmaginabile. La necessità di rallentare il contagio ci sta facendo vedere cosa significhi per il nostro Paese non soltanto ridurre la socialità all’interno – chiudersi in casa, non vedere amici e parenti, limitare la nostra libertà di movimento e di riunione – ma anche, all’esterno, vivere in una situazione di virtuale isolamento internazionale: flussi commerciali enormemente rallentati, code di camion alle frontiere, turisti spariti dalle nostre città. Una scelta obbligata che avrà però conseguenze pesantissime sulla nostra economia, sui posti di lavoro, sulla prosperità delle nostre famiglie. Ed è una situazione difficile, che dobbiamo sopportare per cause di forza maggiore, per limitare il dolore e il lutto che sta colpendo la nostra comunità, per dare sostegno e respiro ai medici e al personale degli ospedali che stanno facendo sforzi eroici per far fronte a questa crisi. E tuttavia dovremmo tenere a mente, ora che abbiamo sotto agli occhi le difficoltà e i problemi che questa chiusura provoca, quanto sia di gran lunga più auspicabile e positiva per noi la realtà aperta e integrata sul piano internazionale alla quale eravamo abituati e alla quale dovremo assolutamente tornare quanto prima.
E allora perché il suo tweet ha suscitato reazioni sdegnate?
Perché c’è chi da anni lavora per diffondere l’idea che l’Italia potrebbe e dovrebbe fare da sé: comportarsi come un’isola, uscire dall’Europa, uscire dall’euro, rifiutare i trattati di libero scambio, chiudersi come una fortezza per difendersi da un mondo esterno che però – diciamolo con estrema chiarezza – ci è tutt’altro che nemico. È un’idea basata sulla paura, che tradisce la vocazione globale del nostro Paese: un Paese povero di materie prime ma geniale nella sua capacità manifatturiera, che esporta bellezza e qualità che sono desiderate in tutto il mondo. Un Paese che dallo scambio con il resto del pianeta trae enormi vantaggi: siamo il settimo esportatore al mondo e il quinto paese per avanzo della bilancia commerciale con un surplus di quasi 53 miliardi di euro. Eppure, secondo l’Eurobarometro, gli italiani sono gli ultimi in Europa a comprendere e apprezzare l’importanza del commercio internazionale per il proprio Paese. Un ottimo lavoro da parte dei professionisti della paura, non c’è che dire. Ed è ovvio che in questa fase in cui la paura dilaga per colpa del virus, sia più difficile sottolineare i vantaggi dell’apertura che i rischi che corriamo se ci isoliamo dal resto del mondo. Ma una classe dirigente che si rispetti dovrebbe fare esattamente questo: non come i deputati della Lega che prima predicano la chiusura e dicono tutto il male dell’Europa, e poi protestano se l’Austria fa a noi proprio ciò che loro predicano e chiude le frontiere ai nostri tir.
Come giudica gli attacchi di Salvini alle misure governative per l’emergenza Covid-19?
Noto per prima cosa che, al solito, Salvini cambia idea molto spesso. Il 27 febbraio twittava «Riapriamo tutto quello che c’è da riaprire» e il 9 marzo «Chiudere tutto e subito». Grazie al cielo uno così adesso è ben lontano da responsabilità di governo e non può fare altri danni. Vede, siamo in una situazione di tale emergenza da ricordare quella di una guerra: un tempo paragonabile forse solo a quello in cui l’Italia fu divisa in due dalla Linea Gotica. Io credo dunque che in questa fase gli italiani stiano guardando non tanto alla politica, quanto alle istituzioni, che si aspettino di vedere all’opera non tanto i partiti, quanto la Repubblica. E questo spirito, mi lasci dire “patriottico”, è quello che dovrebbe ispirare ogni nostro comportamento in questa fase: oggi si lavora tutti solo ed esclusivamente per perseguire l’interesse nazionale, non quello del proprio partito. Il contrario di quello che sta facendo Matteo Salvini. Lui resta pur sempre l’unico italiano capace di fare il tifo contro la nostra nazionale ai mondiali di calcio, fallendo così anche il test minimo per misurare l’attaccamento di un italiano alla propria bandiera.
Giovedì da Lagarde una gaffe madornale. Renzi ha detto cha la Bce ha sbagliato profondamente. È d’accordo con la valutazione del
fondatore di Italia Viva?
D’accordo con Renzi, con gli osservatori e con i mercati che hanno tutti, ciascuno a modo proprio, considerato improvvida l’uscita di Christine Lagarde. Per fortuna, però, mi pare che poi si sia corso ai ripari. Mi preme però sottolineare alcune parole della dichiarazione del presidente Mattarella, che ha detto che ci aspettiamo iniziative di solidarietà e non ostacoli da parte europea. Si dice spesso che l’Europa si trova davanti a un bivio e che deve fare il tanto atteso salto che la porti a essere non solo un gigante economico ma anche un gigante, e non un nano, politico. Ecco, davanti a questa crisi o l’Unione Europea si mostra capace di far fronte tutta insieme a un problema così enorme o davvero rischiamo di giocarci lo strumento che ha assicurato al nostro storicamente martoriato continente pace e prosperità negli ultimi sessant’anni.
L’emergenza Covid-19 l’ha spinta nelle scorse settimane a ritirare le dimissioni da sottosegretario. Ma alla fine la delega per l’Europa le sta permettendo di confrontarsi con rappresentanti dei Paesi europei in questo periodo concitato. Quali sono i piani su cui sta conducendo la sua azione?
Naturalmente, fin tanto che mi è dato di servire il mio Paese, lo faccio con il massimo del mio impegno. In questo momento in particolare, curando gli interessi dei nostri connazionali che stanno incontrando difficoltà a rientrare in Italia da altri Paesi europei, o di coloro come i lavoratori italiani che quotidianamente attraversano i confini per lavorare all’estero – 70 mila “frontalieri” con la Svizzera, circa 6.500 con San Marino, circa 5.000 con la Francia e il Principato di Monaco – che sono naturalmente molto preoccupati sia per la sicurezza dei loro posti di lavoro sia per la differenza di standard, tra Italia e Paesi confinanti, nella profilassi della Covid-19. In queste ore ho parlato con Jill Morris, l’ambasciatrice britannica a Roma, per significarle formalmente la grande preoccupazione per la crescente ansia della comunità italiana nel Regno Unito a causa dell’assenza di misure significative per contrastare la diffusione del virus. L’ambasciatrice Morris mi ha confermato che, al di là delle ricostruzioni uscite sulla stampa in queste ore, le soluzioni adottate dal nostro governo sono di ispirazione anche per il governo di Londra, come lo sono per tutti gli altri Paesi amici e vicini. Possiamo certamente dire che in questo momento l’Italia è un esempio per tutti.
Il presidente Conte prima ha detto che la produzione non si ferma. Poi ha favorito i protocolli di sicurezza tra sindacati, Confapi e Confindustria, che sono però ritenuti da Eliana Como di Fiom-Cgil insufficienti per la salute di operaie e operai nelle fabbriche soprattutto del Nord Italia. Se questo è comprensibile per il settore farmaceutico e alimentare, non crede che è inaccettabile per la produzione non essenziale e che quindi andrebbero momentaneamente chiusi i relativi stabilimenti?
Non credo che sia corretto mettere in contrapposizione le due cose. Questa crisi, e le difficili decisioni che il governo ha preso, hanno messo in chiaro che la salute pubblica viene prima di tutto e questo vale anche per tutti i lavoratori: per i frontalieri che lavorano all’estero, come dicevo, così come per coloro che lavorano nelle fabbriche. Su questo il Governo è stato molto chiaro nei vari incontri con le parti sociali. Dopodiché non vorrei che si passasse da un estremo all’altro, dal panico iniziale per le conseguenze economiche delle misure draconiane a cui il virus ci ha costretti, a una sorta di assuefazione che ci porti a ponderare meno decisioni che comunque dobbiamo continuare a considerare gravi, eccezionali e temporanee. Per quanto possibile dobbiamo comunque cercare di far andare avanti il Paese, ovviamente osservando rigorosamente le norme sanitarie con cui tutti in queste settimane abbiamo acquisito familiarità al fine di garantire nel modo più assoluto che il contagio non si estenda ai luoghi di lavoro.
Che idea si è fatta dei contrastanti giudizi dei presidenti delle Regioni ai decreti governativi e della decisione di Fontana di nominare Bertolaso suo consulente personale? Non crede che l’emergenza del Covid-19 abbia maggiormente messo in luce i limiti e le problematicità del decentramento amministrativo come contemplato nel Titolo V?
La nomina di Bertolaso è una buona notizia: è un uomo competente e ha già in passato dimostrato di essere all’altezza della sfida. Avrebbe potuto certamente svolgere, come Italia Viva aveva chiesto, un compito di questo tipo anche a livello nazionale. Quanto al rapporto tra Stato e Regioni, nel 2016 ero sottosegretario alle Riforme costituzionali e in quella veste ho avuto modo di seguire da vicino l’iter di scrittura e di approvazione di quella riforma. Del Titolo V si parlò poco, all’epoca, eppure sarebbe servito moltissimo a migliorare l’assetto organizzativo dello Stato e anche la gestione di parti rilevantissime della nostra economia. Oggi, con questa emergenza sanitaria, lo vediamo benissimo. Ma se posso farle un altro esempio di un settore che pagherà carissima questa crisi e dove sarebbe necessario un maggior coordinamento, dovremmo pensare al turismo: una delle principali industrie nazionali, dove però le competenze sono regionali e l’Italia paga da sempre il proprio andare in ordine sparso. Credo che a questo punto si ponga sicuramente la necessità di ragionare sul fatto che, in situazioni di emergenza come questa, lo Stato possa avocare a sé, in tutto o in parte, le competenze delle Regioni. Si tratta della “clausola di supremazia” che era già prevista, appunto, nella riforma del 2016.
In conclusione, resta sempre della convinzione di doversi dimettere una volta passata questa fase critica per il Paese?
Ho congelato – non ritirato – le mie dimissioni, pur restando in deciso e sostanziale dissenso con le decisioni del ministro Di Maio in tema di organizzazione del nostro commercio estero, proprio perché non avrei mai voluto dare il segno di un indebolimento del governo in una fase così delicata per la nostra comunità nazionale. L’ho fatto perché nutro un profondo rispetto nei confronti degli italiani e della difficoltà e del dolore che stiamo attraversando: dare le dimissioni in questa fase sarebbe stato del tutto incomprensibile. E tuttavia con lo smantellamento dell’organizzazione unitaria che ha sostenuto e promosso negli anni il successo del Made in Italy nel mondo, che viene ripartita tra una pluralità di soggetti, si produrrà a mio avviso un importante impatto negativo sulle nostre imprese e sulla nostra economia. Credo che accettandolo finirei con l’avallare una decisone che ritengo contraria all’interesse nazionale, e tradirei così il giuramento che ho prestato all’assunzione del mio incarico. Quando il Coronavirus sarà finalmente alle nostre spalle, ne riparleremo.
www.linkiesta.it