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Litigare sempre, governare mai: Salvini e Di Maio non sanno fare altro (e intanto l’Italia affonda)

 

Il conto alla rovescia segna meno cinque al 20 luglio, la data fatidica che da mesi viene indicata come il reale motivo delle intemperanze del governo, il D-Day spartiacque oltre il quale non sarà più possibile rompere l’alleanza sperando in elezioni d’autunno. Sabato prossimo. Ci siamo quasi.

Nel racconto corrente tutte le turbolenze politiche degli ultimi tempi sono legate alla volontà di tenere aperta fino all’ultimo l’opportunità di una crisi che conduca la Lega verso il voto anticipato e spinga Matteo Salvini verso la poltrona più alta di Palazzo Chigi. Ma siamo davvero sicuri? È davvero probabile che, scavalcata quella scadenza senza franare, il governo conquisti un’ordinaria compostezza?

I fatti dicono l’esatto contrario. La zuffa accesa ieri sulla manovra economica (che non è nemmeno in discussione e di solito si fa a ottobre) parla di una nuova stagione di conflittualità permanente alle porte: dopo il gennaio caldo delle Regionali, la primavera calda delle Europee, l’estate calda dei rubli russi, già si prepara l’autunno caldo della flat tax o di qualsiasi altra cosa esca dalla fantasia dei partner di governo.

La prima mossa l’ha fatta Salvini, con l’irrituale convocazione dei sindacati al Viminale portata a termine esercitando il massimo della sua capacità di sfida: non solo ha aperto un tavolo personale con Cgil, Cisl e Uil, ma ha ha fatto presentare la sua proposta da Armando Siri, il sottosegretario revocato da Giuseppe Conte perché indagato per corruzione.

L’ira del premier (“È una scorrettezza istituzionale”) era prevedibile, così come la somma irritazione di Luigi Di Maio (“Basta recite”) e il conseguenze rimpallo del ministro dell’Interno: non solo non si è pentito, ma ha annunciato nuovi tavoli, nuove consultazioni, data già fissata il 6 o 7 agosto.

In tanti già spiegano che è solo tattica, un tentativo di marginalizzare gli sviluppi del RussiaGate, che ieri prevedeva l’interrogatorio di Ganluca Savoini (si è avvalso della facoltà di non rispondere), sostituendolo con nuove e più croccanti polemiche.

Ma anche questo tipo di giustificazione comincia a mostrare la corda mentre si avvalora il sospetto che la propensione allo scontro interno di questo esecutivo non dipenda né dalle scadenze elettorali, né dagli accidenti della cronaca, né da Carola, da Buzzfeed, dalle discordanti visioni sulla Tav o su Maduro.

Forse litigano perché è la loro natura. Perché sono ossessionati dai sondaggi. Perché un algoritmo gli ha detto che è il momento di insistere – sulle Ong, sui rubli, sul fisco, sull’autonomia differenziata e su ogni altro motivo di scontro degli ultimi mesi – per recuperare mezzo punto. Perché la loro visione della politica è quella di un’arena dove ogni giorno si devono mostrare i muscoli e sfidare le tigri. Perché hanno fatto fortuna così, e non riuscirebbero a cambiare schema nemmeno volendo.

In ogni caso, l’idea che il 20 luglio (in mancanza di crisi) spazzi via i temporali e apra un anno di ordinaria navigazione del governo gialloverde, si rivela già da oggi infondata. La scena politica italiana resterà probabilmente legata al massimo grado sopportabile di conflittualità, anche perché dopo un anno al potere la parte facile dell’agenda politica di Lega e Cinque Stelle è stata consumata.

Ciascuno ha avuto le leggi-bandiera che aveva promesso e ha fatto il massimo nel territorio che si era assegnato, immigrazione da una parte e reddito di cittadinanza dall’altra. I segnaposto ideologici, dalla legittima difesa all’abolizione della prescrizione, sono stati tutti piazzati. Esaurito l’elenco delle cose “da fare per forza” gli automatismi sono più laschi, la possibilità di scelta più larga, l’elenco delle priorità più opinabile, e quindi sono destinati a crescere anche i potenziali motivi di scontro. Inutile opinare “più di così non si può”: lo abbiamo sentito dire molte volte in passato, i fatti hanno smentito ogni volta l’obiezione.

 

 

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