Uno potrebbe pensare ingenuamente che non ci sia nulla di peggio, in uno stato di diritto fondato sulla divisione dei poteri, di un decreto legge dell’esecutivo che disponga la carcerazione di reclusi anziani e malati, cui la magistratura di sorveglianza abbia concesso il beneficio della detenzione domiciliare, come misura di prevenzione del contagio.
Ma c’è invece anche qualcosa di peggio ed è il quasi unanime favore che questi surreali ricorsi popolari a Palazzo Chigi contro le pronunce dei giudici riscuotono nella maggioranza e nell’opposizione parlamentare, come una sorta di atto dovuto o di obbligo morale.
In Italia, a quanto pare, ci sono sentenze che non si discutono, e altre invece che direttamente si abrogano, nella presunzione assoluta che riflettano una disfunzione di sistema o addirittura una subalternità corriva agli ordini criminali. A volere guardare il fondo dell’abisso, di ancora peggiore del peggio ci sarebbe la partecipe disponibilità dell’opinione pubblica italiana alla tribalizzazione del dibattito sulla giustizia e sulla pena.
Tuttavia, sarebbe illusorio auspicare che nella pubblica opinione si conservi qualche anticorpo liberale, quando la classe dirigente legittima da trent’anni i tumulti di piazza, suscitati dai pupari del caos e dell’alienazione politica, come forma di autentica militanza o sentimento di giustizia.
Rimane il fatto che la guerra civile dentro il “partito della forca” – che è diventato il partito unico della giustizia italiana come il PNF era il partito unico della politica del Ventennio – in Italia è ora destinata a infettare anche il codice sorgente di una democrazia liberale e a trasformare l’esecutivo in un tribunale speciale di ultima istanza sulle sentenze politicamente sensibili.
La “pistola fumante” del delitto a cui oggi l’esecutivo vorrebbe porre rimedio è una circolare della Direzione per l’amministrazione penitenziaria del 21 marzo, che elenca una serie di patologie o condizioni “a cui è possibile riconnettere un elevato rischio di complicanze” in caso di infezione da Covid-19 e, su questa base, richiede alle direzioni degli istituti di trasmettere all’autorità giudiziaria l’elenco dei nominativi dei detenuti che si trovavano “nelle predette condizioni di salute”.
Questo atto, che è assolutamente ineccepibile, è costato il posto a Basentini, è diventato lo scandalo su cui la politica italiana si è accapigliata per giorni ripudiandone la responsabilità ed è esploso come caso politico nazionale dopo le accuse del magistrato Nino Di Matteo al ministro Bonafede, sebbene sia pacifico che i giudici di sorveglianza non si limitano a “timbrare” scarcerazioni disposte da altri, ma valutano in concreto, guardando alla realtà dei singoli istituti e dei servizi sanitari interni e esterni accessibili, se la condizione dei reclusi più vulnerabili è compatibile con la detenzione.
È risaputo, anche da parte di praticanti del diritto di non eccelso calibro, come Bonafede, ma è politicamente scorretto ammettere di saperlo. È “o-ne-sto” invece fingere di ignorarlo e meravigliarsi e indignarsi se un giudice di sorveglianza manda a casa un malato di cancro che non ha più un centro medico né esterno né interno, nel raggio di centinaia di chilometri, in cui procedere con i trattamenti rimanendo detenuto.
E si arriva all’oggi, cioè alla decisione, a quanto pare presa, di ripulire la faccia e la coscienza del Ministro, attaccato dal nume tutelare dell’antimafia combattente, e di offrire in cambio alla piazza il sacrificio di qualche centinaio di criminali anziani e malati. Una sorta di pena corporale esemplare non del “male” di cui essi sono stati responsabili, ma del “bene” che il Ministro si impegna a perseguire, malgrado le offese del suo ex beniamino e attuale accusatore.
Ecco l’ultima frontiera della politica della “o-ne-stà”, il sacrificio umano. Rimettere dentro un po’ di vecchi capibanda, cosicché, se creperanno in galera di Covid, anziché a casa, potranno dimostrare che Fofò Dj è davvero contro la mafia.