Il capo politico reagisce: «Chi è interessato al gioco degli altri e del sistema può accomodarsi in un partito, basta polemiche inutili». Ma i malumori non si placano. Il senatore Ugo Grassi verso l’addio. Alla Camera continua l’impasse sul presidente dei deputati: la partita potrebbe restare congelata fino a gennaio
di Manuela Perrone
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La bomba sociale dell’ex Ilva è stata l’ultima goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo. Rendendo plasticamente evidente ciò che covava da tempo sotto la cenere: la difficoltà di Luigi Di Maio di controllare i suoi gruppi parlamentari. Lacerati in bande e mini-correnti, tra filoleghisti (pochi), insofferenti della gestione dimaiana (molti), critici “responsabili”, delusi dalle scelte nella formazione del nuovo Governo giallorosso, semplici disorientati. Una polveriera rafforzata dalla latitanza di Beppe Grillo, cui molti guardano con speranza, e dalle proteste sotterranee contro Davide Casaleggio e il ruolo dell’Associazione Rousseau.
La mediazione su Ilva affidata a Patuanelli
La cesura tra Di Maio e gli eletti M5S ha ricadute dirette sulla tenuta del Governo e preoccupa non solo gli alleati, Pd in testa, ma anche il premier Giuseppe Conte, che ha toccato con mano le divisioni durante l’incontro di martedì mattina con i parlamentari pugliesi, fermi sul “no” all’immunità penale per ArcelorMittal. Da qui la trovata: la delega del dossier, fronte Movimento, al ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, che è riuscito a strappare prima ai senatori, martedì sera, e poi ai deputati, il giorno successivo, almeno un mandato a tornare a riferire all’assemblea se dovesse emergere l’esigenza di proporre lo scudo su richiesta di Conte e il “sì” alla continuità dell’impianto di Taranto nell’ambito di un percorso di decarbonizzazione. Prime timide aperture.
L’idea di un «cordone» intorno al leader
Ma c’è un aspetto politico dell’operazione che fonti pentastellate di Governo invitano a non sottovalutare: la creazione di una sorta di “cordone” intorno a Di Maio che possa sorreggerlo nella guida del M5S, dove ormai è quasi in minoranza, e al tempo stesso mettere in sicurezza l’Esecutivo da tentazioni di rottura. Un fronte che naturalmente ha il suo terminale in Conte, i suoi bracci operativi in tanti ministri e sottosegretari pontieri, e un obiettivo: ridurre lo scollamento tra i vertici e i parlamentari. Senza per ora essere finalizzato a “spodestare” Di Maio: secondo lo statuto (articolo 7, comma e), peraltro, la mozione di sfiducia al capo politico potrebbe essere promossa soltanto da Grillo, in qualità di garante, oppure con una delibera assunta a maggioranza assoluta dei componenti del comitato di garanzia, e in entrambi i casi occorrerebbe la ratifica del voto online. A nulla servono i documenti che stanno circolando, come quello redatto dal deputato siciliano Giorgio Trizzino, che invocano la separazione tra il ruolo di leader e l’assunzione di incarichi di Governo. Anche perché – per ammissione di molti critici – al momento non c’è un’alternativa a Di Maio.
La reazione del leader
Come sempre nei momenti di difficoltà, Di Maio in un post su Facebook attacca la stampa, ma soprattutto i dissidenti accusati di alimentare «retroscena su qualche giornale compiacente». Senza curarsi però del fatto che ormai non si tratta più di sparuti gruppetti. «Qui nel Movimento si lavora per cambiare il Paese», avverte: «Chi è interessato a fare il gioco degli altri e del sistema può accomodarsi in un partito. Chi di fronte alle vittime di Venezia e al dramma dell’Ilva preferisce guardarsi gli affari suoi conosce la strada. Il Movimento non lo piangerà».
Il senatore Grassi verso l’addio (e la Lega)
Non sono proprio le parole che deputati e senatori si aspettavano. Poche ore dopo ecco che Ugo Grassi, giurista partenopeo eletto a Palazzo Madama all’uninominale da tempo annoverato tra i pentastellati con la valigia, ammette all’AdnKronos di essere a un passo dall’addio: «La contraddizione tra ciò che mi era stato prospettato, che era oggettivamente il programma M5S, e ciò che sta accadendo è diventata così aspra che abbandonare il Movimento diventa legittima difesa». Casus belli, l’istituzione in manovra di un’Agenzia nazionale per la ricerca. «Volevo contrastare lo strapotere dell’Anvur», spiega. «Non ci sono riuscito perché il M5S non si è proprio attivato, anzi ha fatto l’opposto. E non contenti creiamo un’altra Agenzia che costa 4 milioni di euro». Prima di Grassi, che veleggerebbe verso la Lega, avevano abbandonato la nave Paola Nugnes (ora in Leu), Silvia Vono (approdata a Italia Viva) ed Elena Fattori (nel Misto). Altri sarebbero tentati.
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